Perché e quando divenni juventino (fino alla fine)
Mi dissi:
Buffalo! – e il nome agì
E. Montale
Ricordo vividamente l’istante preciso in cui divenni juventino.
Era l’estate mundial del 1982 e io, educato da mio padre al tifo per la nazionale, l’unico che fosse pulito (“Se i tuoi amici ti chiedono di quale squadra sei, tu rispondi: «L’Italia!»”, mi ripeteva), tiravo il pallone contro la rampa di scale che portava all’ingresso del mio appartamento. La casa della mia infanzia è infatti leggermente sopraelevata perché doveva, secondo le norme di quella zona semi-industriale, crescere su un “laboratorio”, ovvero la “cantina” dove effettivamente mio padre portava avanti un po’ di lavoro domestico: minuteria legata alla produzione di rubinetti, che si portava direttamente dalla fabbrica, per arrotondare lo stipendio da operaio con l’aiuto dei genitori.
Faceva caldo, e io scattavo a destra e a sinistra cercando di interpretare le respinte irregolari dei gradini e degli spigoli, tra qualche colonna e altri vari ostacoli. Fu allora che un suono, intercettato probabilmente da qualche trasmissione radiofonica con le notizie sportive, mi risuonò nella testa, per diventare immediatamente un mantra. Mi dissi: “Platinì!” – e il nome agì.
Fino ad allora ero stato, effettivamente, un blando amante del calcio. La mia passione erano le incursioni nelle brughiere, magari persino alle cave delle discariche, e gli allontanamenti sempre più audaci nei boschi delle colline circostanti – fino all’impresa, un pomeriggio, dell’ascesa alla Madonna del Sasso lungo il sentiero degli scalpellini (in alcuni tratti anche pericoloso, per dei bambini), senza che nessuno ne sapesse nulla, accompagnato unicamente dall’amico selvatico di quegli anni, quello che solo io sapevo domare. Avevo cominciato, sì, la collezione delle figurine Panini, ma il mio amore per il pallone era ancora fumettistico, virtuale, trasognato, a tal punto che provavo una certa simpatia per la Fiorentina, per la divisa della squadra e la suggestione di un altro compagno di scuola.
Ma quella era l’estate mundial e anch’io fui preso dalla furia del demone calcistico. Ricordo lo scatto dalla cucina verso il balcone per annunciare a mio padre, che tornava dalla fabbrica, che l’Italia stava battendo il Brasile, e che aveva segnato addirittura tre gol Paolo Rossi! Ricordo persino la delusione della sua risposta, che non fu di entusiasmo, ma di scetticismo: “Ma figurati!”. Cominciavo a prendere le misure anche a mio padre, a capirne la fisionomia di tifoso timido (juventino anche lui, capii in seguito), ipercritico, scettico, sempre pronto trasformare una gioia in un cattivo presagio.
La passione per il calcio diventa per un bambino uno stigma caratteriale. Si tramuta persino in criterio per decidere le prime amicizie o comunque un delicato congegno che complica le relazioni sociali. Nell’adolescenza, soprattutto in un contesto culturale come quello italiano, in cui il “tifo per” è tanto sentito da tramutarsi in “tifo contro”, questo congegno genera fastidiose interferenze, procura intossicazioni. Il passaggio dallo “sfottò” simpatico al piacere sadico che stuzzica il puntiglio altrui e impone il propagarsi della stessa logica è quasi immediato. Per fortuna che si tratta solo di calcio – per chi almeno ha orizzonti nella testa che vanno oltre la curva dello stadio.
Ma anche nell’adulto, come insegna Eric Berne, sopravvive il bambino. E gioie e delusioni sportive scandiscono un ritmo di vita. Io, per esempio, sono stato juventino in un’età cruciale quando, dopo aver appena assaggiato il mito di Platini, a dominare lo scenario era il leggendario Milan di Sacchi. So bene come certe partite si fissino al pari di cicatrici sacre della memoria. E quelle belle, dei giorni di vittoria, sono più leggere di quelle dolorose. Mi è rimasto dentro il tempo ineluttabile e il senso irreale con cui seguivo, impietrito, la sfida tra Juventus e Amburgo. Com’era possibile che i miei eroi perdessero, contro avversari nemmeno dello stesso rango? Nella testa di un bambino la domanda si fa lancinante, perché pretende che l’infanzia stessa sia superata.
Ripensavo a tutto ciò in questi giorni, vivendo (con il disincanto dell’adulto, certo, ma pur sempre con il bambino dentro di me) l’attesa per la finale di Champions di quest’anno. È la prima che ho vissuto soprattutto attraverso gli occhi dei miei figli – loro sì juventini per eredità consapevolmente trasmessa. Che peccato dover constatare che il cerchio non si è chiuso in modo perfetto, che la favola di una squadra che ha saputo redimersi dopo l’inferno della serie B ed entrare nella leggenda con il record di scudetti consecutivi, non abbia saputo infrangere il tabù delle finali di Champions perdute (ora sono cinque di fila, mannaggia, e addirittura sette su nove in totale). Che peccato soprattutto per quegli eroi che, dopo essere rimasti fedeli alla squadra anche durante la retrocessione, quasi certamente non avranno più un’altra occasione per vincerla… Si tratta, appunto, di rendersi conto che la realtà non è una favola e che gli eroi restano pur sempre uomini.
Ma è stata una bella occasione per rileggere, con loro, il calcio come metafora di vita. Così, allora, questa delusione può diventare motivo di rilancio per un’altra avventura. E non lasciarsi intossicare dalla gioia pidocchiosa di tanti tifosi “anti-juventini” diventerà nei prossimi giorni un esercizio di stile anche per il mio secondogenito (il primo è già tanto grande da portarsi in casa per vedere la partita due amici, uno milanista e l’altro interista), che con i suoi pianti disperati e urla e scenate fuori luogo esprimeva in modo diametralmente opposto lo stesso dispiacere che provai io trentaquattro anni fa.
Perché la partita di Cardiff era solo una partita, in fin dei conti. E noi comunque “fino alla fine” (come recita il motto bianconero) ci siamo arrivati anche questa volta. E poi è stata una stagione quasi perfetta, si è sbagliato solo un tempo, se invece di dieci meritiamo un nove e mezzo possiamo essere orgogliosi di avere problemi di questo livello. E poi, chissà, la favola non è nemmeno finita: la storia si scrive vivendo il presente, e non è detto che nei prossimi cinque anni la Juve non vinca la Champions, magari anche più volte.
Pensieri semplici, anzi ovvi, al limite da risultare tediosi, soprattutto per un bambino inconsolabile durante la caduta dei suoi eroi.
Ma il calcio è una bella metafora perché insegna che dopo l’ultima partita, vinta o persa, il giorno dopo si ricomincia comunque daccapo: il richiamo del cortile resta sempre più forte.
Oltre la curva ci aspettano ben altre sfide, ragazzi. C’è il sole, è domenica. Oggi giocherò anch’io a pallone con voi.
Non è mica la fine, questa.
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