Maurizio Cucchi, fotografia di Dino Ignani

Maurizio Cucchi

(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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L’icona del padre. Sulla poesia di Maurizio Cucchi

Il Novecento, si va dicendo, è un secolo di grandi libri primi, ma forse si potrebbe potenziare il valore di una simile battuta, che rischia di cadere nel generico, adottandola per la seconda parte del secolo, almeno nella sua utilità di punto di partenza per un’analisi più accurata. Se poi una ragione, o più ragioni, possano sottostare a una simile constatazione, non è qui il caso di verificare; certo è che in un possibile elenco di autori da addurre a prova per il loro perentorio esordio poetico non mancherà Cucchi, che nel 1976, con Il disperso («un vero romanzo milanese», a detta di Raboni), veniva accreditato come prosecutore della linea lombarda, in particolare per quanto riguarda il suo versante espressionistico.

Nel Disperso non troviamo propriamente una trama, «bensì il suo disfarsi narrativo, secondo canoni che si direbbero atonali», dice bene Magrelli presentando il volume nella successiva riedizione [1]. In effetti, fingendo di raccontare, sotto forma di indagine poliziesca, la ricerca di una figura perduta e dei colpevoli, l’autore porta sulla scena squarci di una realtà impoetica, allucinata, capace in testi ampi e magmatici di creare atmosfere che hanno fatto pensare a Beckett e a Céline, ma che per una certa logica costruttiva possono rinviare anche all’ultimo Caproni, alla composizione di un poemetto per frammenti, sostenuto da una quête, complicato nelle risonanze dalla moltiplicazione dei punti di vista, giocato su diversi registri pronti ad alternarsi vorticosamente – a patto che si tenga presente, appunto, che questa grammatica caproniana viene sussunta in altro linguaggio passando, da una musica elementare e pungente, a una struttura più magmatica, si diceva, e avvolgente, per quanto pronta a infiammarsi in improvvise e perentorie asserzioni. E questo linguaggio altro, di base, ci fa ritornare a Raboni, in particolare alla sequenza Parti di requiem o alla prosa sincopata di Economia della paura, volendo rimanere nei dintorni cronologici degli esordi di Cucchi e vale a dire restando a Cadenza d’inganno, ben consapevoli che si potrebbe risalire anche lungo tutto il “parlato interiore” dei libri precedenti di Raboni, sempre allusivi a una trama romanzesca che poi egli riconoscerà nel poeta più giovane, dove peraltro manca invece il piglio politico di fondo del “maestro”.

Volendo ricostruire approssimativamente il contenuto rifratto ossessivamente nel testo, si riconoscerebbe nella figura tragicamente perduta l’immagine paterna e nel disperso il figlio, che vaga appunto in una condizione di disorientamento esistenziale ricomponendo faticosamente una propria identità, e insieme gli altri volti che la determinano. Il puzzle è costituito da una serie di indizi malcerti e da una fittissima costellazione di oggetti, accatastati a tratti con un compiacimento nominalistico ma sempre raccolti alla luce della struttura pseudo-narrativa del libro, che li sottrae anche all’aura metafisica per trattenerli nella tensione orizzontale della vicenda, rafforzata di volta in volta con i repentini mutamenti tonali, attraverso il pastiche linguistico e i cambi di registro, tutti però magistralmente amalgamati in una sorta di monologo interiore continuo, nella dinamica di un pensiero che si fa sguardo e azione – richiamando ancora una volta la grande lezione europea contemporanea.

La sintassi si fa di volta in volta slabbrata, sospesa, fluida, pronta ad accogliere lacerti di realtà, abbozzi di dialoghi dal sapore eliotiano, reticenze, lunghi accumuli, infrapensieri che filmano la condizione contraddittoria e nevrotica del soggetto, “disperso” nel mondo, incapace di portarlo a una sintesi quieta, di dominarlo. Ne sono un sintomo i tic, le debolezze e persino le brutture che vengono accolte nel racconto, a redimere l’umanità di un mondo piccolo borghese che si vorrebbe decadente e meschina, e che invece viene abbracciata nella sua nuda e commovente fragilità morale. Fragilità che si tramuta perciò in una sorta di paradossale eroismo, centrato su quella che – ricorrendo a una formula con cui lo stesso Cucchi antologizza alcuni fra i modelli più prossimi alla sua esperienza poetica [2] – chiameremmo «etica del quotidiano», che trasposta in narrazione diventa una piccola epica di minimi avvenimenti, una determinata fedeltà alle cose più povere e minute.

Il libro si apre con una sequenza che giustappone alcuni elementi caratteristici di questo universo poetico fin dal titolo: La casa, gli estranei, i parenti prossimi, a indicare efficacemente la presenza invasiva di una realtà che pone l’assedio all’io smarrito e inerme. La frantumazione paratattica con cui prende vita la scena ha un’evidente duplice funzionalità, narrativa ed emotiva, temprata da una sorta di cinica oggettività che esclude ogni slancio lirico, sprigionando semmai sdutte e improvvise asserzioni del soggetto, vaghe e vibranti, che danno credito a ipotesi investigative, a dubbi, a ogni strategia utile per rimettere in moto la narrazione («Ci sarà / un aggancio»).

Il testo poetico si appoggia spesso, per procedere nella narrazione, a incidentali e a interrogative, ma soprattutto a veri e propri passaggi didascalici: «Diamo un’occhiata alla topografia della casa». Può anche baluginare un tu puramente fatico e speculare all’io per mantenere desta la tensione drammatica: «Un senso, / capisci, non mancava», «Ricordati, però, senza cercare colpe, dell’acqua». Ma il pregio maggiore è l’ossessione che sostiene l’indagine contro ogni scivolamento simbolico:

Non ci voleva quel bicchiere rotto.
Poco meno di un simbolo. Poco più
di una fissazione. O viceversa.

Alla base di tutto c’è la pervicace mancanza di rassegnazione di fronte all’evidenza:

È morto per un infarto (o per un incidente stradale, per
un malumore, per via di un sasso): sì, va bene, ma ci sarà
pure un colpevole, un responsabile
diretto, qualcuno che l’ha fatto fuori.

Il prezzo di un simile accanimento nella ricerca del colpevole non può poi che rovesciarsi in senso di colpa, che trapela negli atteggiamenti involontari di difesa che il soggetto attiva, quando legge erroneamente e sintomaticamente nelle vicende esterne un moto di accusa nei propri confronti:

.                                                         E io
rosso di colpa, mezzo scemo, coi capelli
già quasi tagliati a zero
a giustificarmi come segue: «Ma io non c’entro,
io non ho fatto niente… l’infarto… lo sa bene…»
E mi toccavo i bottoni della giacca.

Leggere tutto questo in chiave psicanalitica sarebbe qui banale e riduttivo, spostando la questione al di là del testo; ma certo è che il tessuto del libro (ma anche delle successive raccolte di Cucchi) è dato dai fili sottili di una biografia sapientemente occultata oppure oggettivata, in una specie di moto catartico o autopunitivo: «In fondo ci si può denudare / anche in presenza di terzi. In fondo / si potrebbe far l’amore a tu per tu col nemico…», è la fragrante dichiarazione di poetica raccolta in Prima parentesi, poi rafforzata dallo sfogo acre della successiva Seconda parentesi: «è meglio il tipo che topicca dappertutto, / meglio mio nonno un po’ fattore rovinato dalla guerra e un po’ tranviere, / che qualche pirla disinvolto alla James Bond». Si tratta, in entrambi i casi, di un pegno di sincerità estrema, contro ogni imbellettamento letterario, come se il compito della poesia fosse proprio quello di lasciarsi violentare dall’alterità che lo assedia e lo smaschera, anche a costo di scoprire che verità e bellezza non coincidono.

C’è una specie di eccesso nell’accanimento con cui si protrae l’atto terapeutico, lo abbiamo già notato, quasi una minima traccia di compiacimento per il degrado morale, per lo squallore delle cose. Ecco infatti suggerirsi «l’incesto», le «fissazioni di gusto sospetto», il «fascino dell’orrido», la più spudorata descrizione fisica («visto l’arrossamento, / i foruncoletti»), le presenze inquietanti («venga un po’ su da me, / a coccolarmi il mostro»), le «amicizie particolari», tutti momenti felicemente redenti da una mirabile citazione sbarbariana: «Colleziono anch’io / come il vecchio libertino le stampe oscene», ma per il lettore questa sorta di cinismo resta impressa proprio come il sigillo di quel pegno di sincerità che si voleva a fondamento del gesto poetico. Non mancano, tuttavia, soprattutto verso la fine del libro, moti di rivalsa contro questo disagio, nell’ipotesi di un più sereno rapporto con la materia impoetica dell’esistenza:

Non bastano più le solite ragioni.

Correggersi; essere tu, essere lui,
essere in mille punti diversi… ora fissi,
ora rotanti… chi va, chi viene: uomini.
Le molteplici possibilità inespresse…
Essere parte con disinvoltura, condividere commosso.

Il gesto poetico, dopo aver liberato l’oscuro nucleo dell’irrequietudine esistenziale, vorrebbe dunque aprirsi alla presenza dell’altro con naturalezza, perdendo quel senso di prevaricazione del mondo («le persone le cose», per dirla con un’efficace clausola dello stesso Cucchi) sul soggetto, ma intanto le vicende attraversate con suspense narrativa hanno permesso la vivace, espressionistica rappresentazione di un’umanità nel suo più vasto spettro, dalla tenerezza alla paura alla grettezza.

Questi, succintamente, gli eccellenti risultati colti da Cucchi all’altezza del proprio esordio, quando la sua poesia era ancora formata sulle tracce di tutta una tradizione, dalla presenza dispersa di molti padri poetici che non incombevano affatto nel testo, leggero di una propria freschezza timbrica e tematica. Sennonché, a partire dal successivo Le meraviglie dell’acqua [3], Cucchi pare subire la spinta di una “deriva generazionale”.

Se, al di là del fatto che la raccolta resta indecisa fra l’assunzione di una misura testuale ampia e composita, così come nel Disperso, e una più breve, persino con qualche segnale di strutturazione strofica e versale più nitida, le tecniche e le tematiche messe in campo sembrerebbero le stesse del libro d’esordio (soggettività dispersa in più punti di osservazione, allucinata nominazione degli oggetti, commistione di morbosità e candore ecc.), quella particolare tensione narrativa e quell’equilibrio fra realismo e simbolismo che la contraddistinguevano lasciano a tratti il posto a una dizione conchiusa, che probabilmente subisce il fascino di un tono più alto e allusivo, secondo i dettami di una poetica che allora prendeva vigore, in contrapposizione magari alla sperimentazione dei decenni precedenti che pure aveva spianato la via anche a talune soluzioni ora dominanti (senza fare eccezione per il volume d’esordio di Cucchi).

Un esempio emblematico di tale debito generazionale va additato nella poesia Dolce fiaba, che fa propri interessi cari alla ricerca, in particolare, della rivista «Niebo» di Milo De Angelis, laddove la scossa dell’irrelato sembra porsi come criterio costruttivo di una narrazione che perde progressivamente l’assillo del riferimento alla realtà (benché, naturalmente, trovi in essa il proprio presupposto): si parte cercando il colloquio con un interlocutore (il testo si struttura idealmente come una lettera), ma si finisce per cedere al delirio di un pensiero incandescente che prende il sopravvento su ogni volontà ordinatrice. Ma l’intera raccolta risulta appesantita da un’aggettivazione parossistica, da una serie di elencazioni che ammiccano al simbolismo (non è un caso che gli oggetti si fissino talvolta in veri emblemi montaliani: «un elefantino luccicante ci protegge»),  da un irritante ricorso alla sospensione che pare persino gratuita rispetto agli effetti tonali di cui, presumibilmente, vorrebbe farsi carico, da una perdita di intelligibilità della trama unitaria che, per quanto sfuocata, si lasciava intravedere nel Disperso. Il gusto per l’orrido coonesta a tratti l’irruenza di moti irrazionali, il senso di smarrimento diventa istrionesca riprova della potenza poetica, e il testo concresce spesso per la forza di ragioni intime e imperscrutabili; la perdita dei puntelli didascalici ha forse permesso una maggiore purezza letteraria, col risultato però di spezzare liricamente la tensione narrativa. Su quelli che sono «gli avanzi della scena», la traccia comunque permanente rimanda alla ricerca dell’identità, motivo probabilmente legato alla necessità di appoggiare il discorso poetico a interlocutori concreti, che sembrano presupposti a molti componimenti.

«Un imprevisto scenico? Può essere. / O la chiave tragica della finzione… / Tra le diverse maschere […] proprio la mia». Ma l’immagine che alla fine risulta dalla lettura della raccolta, soprattutto in riferimento alla precedente, è quella di una poesia orfana di quella cinica sincerità che sapeva suggerire nei momenti più intensi, e che era la stessa finzione narrativa a rendere possibile.

Da questo momento in poi, tuttavia, la poesia di Cucchi sembra assestarsi su un linguaggio e una misura propri, che insieme assorbono e trasfigurano le tematiche precedenti. È lecito considerare, infatti, le tre raccolte organiche successive (Donna del gioco, Poesia della fonte e L’ultimo viaggio di Glenn [4]) come una trilogia compatta, sia dal punto dei contenuti sia dello stile.

Ad attraversare i tre libri è la narrazione, ripresa, della storia paterna (spesso travestito nel personaggio nominato Glenn, per la somiglianza con l’attore di Gilda) e della relazione che il poeta-figlio instaura con essa, vera origine della condizione tormentata del soggetto e insieme della sua possibile redenzione. Le modalità con cui il racconto viene svolto sono questa volta radicate in una «perentorietà cronachistica e diaristica, che […] si fa lapidaria, essenziale» (Loi). I testi infatti sono brevi, il linguaggio sobrio, privo di compiacimenti, senza le tonalità talvolta violente dei primi libri (e si pensi al finale, addirittura baudelairiano, del Disperso: «Addio // caro adorabile piccolo tanghero ipocrita»). Accogliendo sempre più le istanze generazionali, la vicenda del padre perduto e del figlio disperso si raggelano nel mito, in una distanza insieme sacra e intima che viene sondata da una voce tenera e sicura, capace anche di qualche effusione sentimentale e di versi melodici, meno prosastici che in passato (valgano come correlativi stilistici, in una poesia così prossima al grado zero dell’espressione, almeno alcuni momenti allitterativi o soprattutto il ricorso discreto ma non casuale a rime di chiusura. Ecco un rapido regesto del primo caso: «pena dissolta in un giorno di pace / poca parola di me», «Di chi parlo non so / sole sereno di un settembre lontano» – in Donna del gioco -, «Tetto di tanfo e terra», «Forse la fonte è una frase» – in Poesia della fonte -, «veniva e viene a visitarmi in sogno» – in Ultimo viaggio di Glenn -; esempi invece del secondo stilema possono essere: «che sai fare e non sai fare / sono un bambino ignavo / che non si vuole alzare», «al palato la cucchiaiata / e degusta lentamente, religiosamente, / con un fare sornione di complicità ostentata», «attore maschera o marinaio / i moti del tuo cuore?», «un adolescente un angelo una fantasia / sono un signore che ti pensa e inventa / mite e vile affettuoso e coltivo / la mia mania»; «serio e supino, / mentre già penetra dalle gelosie / il primo annuncio del mattino», «e chi mi ha conosciuto e forse amato / negherà che non sono, / che non sono mai stato»; «negli occhi ho la salita, / ma intanto l’isola è sparita», e i due casi simili: «amici che il vento se li porta / e che soffiava davanti alla mia porta», «Forse sono decotto, rose io stesso / sono solo memoria di me stesso»)

Accanto al nucleo centrale e non più rimosso del rapporto con la vicenda paterna, costruito semmai per mezzo di altre figure e vicende (fossero anche metaforiche e di pura invenzione), di nuove maschere (secondo un’inclinazione a una poesia teatrale che ricorda vagamente Giudici, anche per la serie di “tipi” che talvolta compaiono in queste pagine), si pongono altri cicli poetici, ma – pur nella progressiva semplificazione di libro in libro – è significativo il fatto che questa trilogia presenti alcune sezioni analoghe: per esempio, L’énigmatique di Donna del gioco, in quanto centrata su un personaggio-schermo (qui il ciclista Ottavio Bottecchia), può essere assimilata a La luce del distacco di Poesia della fonte (versi che derivano da un testo scritto per il teatro e che fanno riferimento a una donna reclusa, spesso invasa nel suo delirio dall’immagine di Giovanna d’Arco), che a loro volta sono paragonabili al capitolo di Rutebeuf (poeta attivo nella seconda metà del XIII secolo) dell’Ultimo viaggio di Glenn; ancora, si potrebbero avvicinare le sezioni Disegni di carta e Ragna, nel primo e nel terzo libro della “trilogia”, entrambe nate da una collaborazione con artisti figurativi (il pittore Enzo Carioti e l’incisore Enrico Della Torre), e così via. Ma al di là di questa banale e superficiale constatazione, ritroviamo tutti i temi variamente già toccati nelle precedenti opere, ora distillati con cura.

Anzitutto, emerge ancor più potentemente quel retaggio culturale lombardo che, oltre al tono, al gusto per il dialogato, a un generico senso di poesia fatta di oggetti e a una disposizione etica per il vero di manzoniana memoria, che chiede asciuttezza espressiva, si esemplifica nella fitta trama di luoghi lombardi e soprattutto nella toponomastica milanese che, se hanno le prime radici in Sereni, sembrano ormai più direttamente riferibili alla poesia di Raboni (altro autore, peraltro, in cui si potrebbe riscoprire l’importanza della figura paterna).

Così si irrobustisce, per quanto con discrezione, anche quell’inclinazione all’orrido, quel desiderio di adesione alla realtà più umile (povero è un termine chiave, ricorrente) o, per quella «verità senza bellezza» dichiarata in VetrinaPoesia della fonte. Accompagnano questa dimensione dell’esistenza da una parte la galleria di eroi popolari, per lo più campioni di sport, citati magari con i loro “nomi di battaglia”, e dall’altra le bestie cui spesso l’uomo si parifica o che divengono inquieti emblemi di una dimensione felina, irrazionale: due lati, insomma, della stessa medaglia di quell’eroismo della normalità di cui si diceva.

Prende occultamente consistenza anche il simbolo dell’acqua, già implicato direttamente in due titoli di libri ma già presente nel Disperso: «… o affidarsi, finalmente fiducioso, / al tepore molle dell’acqua nella vasca… // (temo moltissimo per il mio corpo, / temo sbocchi di sangue improvvisi da ogni orifizio, / smembramenti…)». Facile ma non inesatto sarebbe leggere in queste epifanie dell’acqua il senso di rinnovato perdono, di un nuovo battesimo, di una purificazione che permette il definitivo e sereno abbandono all’esistenza da parte del figlio, «che nessuno redime ma non si rassegna». In effetti, in proposito la sezione  Nel mio felice anno di Donna del gioco è esplicita:

Nel mio felice anno
l’esordio mi puliva il sentimento
e anche il mattino mi faceva gola.
Ma il possibile vasto è infanzia,
odore di sé, rosario per la vigilia.
Scorro via, sono acqua…
Avrai per compagna un’anima comune.

Qui e altrove la fissità del dolore si contrappone al senso del divenire che è sinonimo di vita, davanti al quale anche l’ipotesi forse precedentemente sfiorata di un’assolutezza dell’opera letteraria naufraga definitivamente:

Fossi stato più frivolo, amico…
L’inverno si rifà salute,
lascia il maestro, ci aspettano
tutti i paesi del mondo
e nessun ruolo.
Per chi avrà fiducia.
Depongo lo stemma dell’invalido,
la foto dell’atleta e un mazzo di santini.
Ho tutti i treni che partono
e molte virtù.
Non credo più nell’opera
queste carte salutano.

Si tratta del testo conclusivo della sezione citata, in cui “salute” dell’individuo e “saluto” dell’opera vengono fatti coincidere.

Tutto questo ci riporta, in definitiva, al tema dell’identità («Il disperso è un titolo che potrebbe comprendere tutte le mie poesie», presagiva l’autore poco dopo l’opera prima), all’ossessione del «volto» (in particolare si vedano i Disegni di carta), all’incombere e allo specchiarsi fra le pareti domestiche in un «ospite», che viene detto «frettoloso» in Donna del gioco, «bilanciato» in Poesia della fonte – raccolta nella quale la sezione omonima è chiaramente centrata sulla ricerca dell’origine dell’identità: «cerco una fonte che sia solo mia», «Qui parlo per me / senza schermo o figura»,

Forse la fonte è una frase,
una domanda spaccata, una figura
che copre un’altra figura
e un’altra ancora.
Ma non all’infinito.

Benché importante sia anche, fra le altre, la figura materna, soprattutto all’apertura di questo ciclo poetico che segna la maturità letteraria di Cucchi, non sarà difficile assegnare completamente al padre il ruolo più importante per l’ispirazione del poeta, e infatti a lui sono dedicati non solo la maggior parte dei testi, ma quelli più convincenti e felicemente aperti, nel timbro poetico e nella limpidezza delle immagini. Dunque, questi tre libri sono il ripetuto e variato tentativo di congedarsi da questa presenza, come già si diceva nella poesia d’apertura di Donna del gioco:

Il padre che mi parlava
era un ragazzo dal largo sorriso
e aveva gli occhi che hanno già imparato
rifugio lui ristoro mio pensante
che riempie la mia sorte.
Non ti ho tradito ma non ti sogno più
e se mi sogno mi sogno col tuo viso:
sul tuo torace mi ergo
nella tua mano mi fido
con te la folla si spalanca.
Sii maledetto tu
che sai fare e non sai fare
sono un bambino ignavo
che non si vuole alzare.

 

«Ora il suo volto / è diventato la mia maschera», ripeterà poco oltre con disarmante semplicità.

Il punto, però, è che già con Donna del gioco tutto era sufficientemente chiaro e risolto e con Poesia della fonte e soprattutto L’ultimo viaggio di Glenn l’autore pare concedersi delle variazioni su tema, come se non riuscisse a districarsi da quella sofferta, e rassicurante insieme, ombra paterna. La ricerca della «salute», in Poesia della fonte, sembra a tratti cedere ancora alle lusinghe di una poesia verticalmente risolta in se stessa, esile traccia di un soggetto prossimo ormai allo zero: «Sono ridotto a una cornice / eppure mi attraversano / sentimenti bellissimi». Il «bambino ignavo» continua a macerarsi, fino a toccare, nell’ultima opera, punte di acredine, esacerbate da un dettato prosciugato, che talvolta accoglie frammenti veramente inerti, versicoli che si aggiungono al quadro finora tracciato in virtù della subdola potenza del non detto che li circonda, come se la reticenza sostanziasse ormai definitivamente i pronunciamenti del poeta.

Proprio in questa raccolta, è vero, si raggiungono momenti di autentica classicità, all’interno del percorso di Cucchi, come in sequenze che sembrano iscritte sui frammenti di un’antica reliquia: «Ho rotto il mio bicchiere, / tutti i bei giorni sono già passati», oppure in testi poco più ampi ma che hanno il respiro di una ricchissima semplicità (che in effetti deve molto alle scritture di Rutebeuf, cui si fa occultamente riferimento), evidente nell’intreccio fonico e nella levità delle variate ripetizioni:

Tutto l’avvenire è già avvenuto.
E dove sono quelli che ho amato,
che accanto a me mi ero tenuto?
Gli amici sono spariti o sparsi:
il vento li ha portati via,
amici che il vento se li porta
e che soffiava davanti alla mia porta.

Eppure, domina complessivamente il senso di una vena esausta, a tratti francamente priva di qualsiasi sussulto (due frammenti insipidi, fra gli esempi possibili: «Noi eravamo una casa nel mare / e adesso in terra si sono mossi i vermi»; «E intanto le due donne / stavano guardando dove lo mettevano»: qui davvero ciò che si vorrebbe colpisse il lettore è letteralmente quello che non c’è), oppure un coraggioso ma deleterio contorcimento masochistico («Solo questo so fare e non c’è altro, / e mi applico pigro, superbo, negligente, / e lo faccio anche male»; «Forse sono decotto, forse io stesso / sono solo memoria di me stesso»), parato appena dall’ambiguità del soggetto che parla, camuffato nelle maschere che di volta in volta assume in modo non perspicuo. Così, il poeta-untore può permettersi di assemblare nella raccolta anche materiali di diversa estrazione (l’immagine tratta da un film, qualche citazione da Balzac o da Tozzi…), e così via, come se davvero l’opera si costruisse per accumulo di ritagli irrelati, demandando la potenza espressiva all’architettura, al margine bianco, al contorno vacuo in cui si riverbera il tono della poesia.

A giustificare la raccolta, dunque, sembrano esserci i passaggi finali, dove si ripete, senza eludere alcunché, il saluto più tenero che il figlio-poeta rivolge al padre:

Glenn, come lo chiamavo nella mia mente io,
o com’è più dolce e semplice,
com’è più vero:
Luigi.
Resti per me una crepa d’affetto
o un lampo intermittente nel cervello.
E anche tu, che non l’hai mai visto,
lo ami.

Come se l’autore chiamasse il lettore a rendersi complice di questa attesa e piena nominazione del padre, il linguaggio si scioglie nella semplicità conquistata della strofa conclusiva:

Ciao, dico adesso senza più tremare.
Io ti ho salvato, ascoltami.
Ti lascio il meglio del mio cuore
e con il bacio della gratitudine,
questa serenità commossa.

Soltanto da questa pace potrà nascere una parola finalmente in grado di prendere congedo dall’icona paterna, e farsi così carne essa stessa, non più ombra e maschera del passato, ma viaggio nel presente.

(da Nel foco che li affina)

[1] Maurizio Cucchi, Il disperso, Parma, Guanda, 1994. A questa edizione si fa qui riferimento.

[2] Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Milano, Mondadori, 1996.

[3] Maurizio Cucchi, Le meraviglie dell’acqua, Milano, Mondadori, 1980.

[4] Le tre raccolte sono tutte edite da Mondadori, rispettivamente nel 1987, 1993 e 1999.

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