Dario Bellezza, fotografia di Dino Ignani

Dario Bellezza

(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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DARIO BELLEZZA

di Danni Antonello

«Dario Bellezza ha un suo posto, appartato e sicuro, fra i poeti del nostro secondo Novecento». Conclude così Elio Pecora la prefazione all’antologia dell’amico, uscita nell’aprile 2002 per i tipi di Mondadori. Poesie 1971-1996 è una scelta della produzione del poeta romano che vuole dare un’idea d’insieme del suo lavoro, dal primo volume Invettive e licenze, uscito nel 1971 con prefazione del suo mentore P.P. Pasolini, fino al postumo Proclama sul fascino. Mondadori e Garzanti premiano l’opera di Bellezza fin dagli inizi, a dispetto del disappunto di molti e del ghigno soddisfatto di altri. Devo confessare che preferisco entrare nella sottospecie dei ghignanti piuttosto che nel tribunale dei molti, che preferisco cioè stare tra le bande dei lettori di poesia critici, piuttosto che nelle fila ordinate dei critici di poesia.

Per tracciare una veloce analisi dei testi occorre considerare la caratteristica più facilmente carpibile di questa poesia: la viscerale sua ingenuità. Bellezza non è uno che si nasconde dietro l’invalicabilità della forma poetica. Leggerlo comporta toccare la sua, ma soprattutto la propria carne, motivo per cui forse dà ad alcuni così fastidio. A cercare una zona del corpo umano (quello maschile magari, che egli ha tanto celebrato), in cui collocare l’origine del suo slancio poetico e vitale, sceglierei il basso ventre, grembo mancato di tutte le passioni più umide e torbide. È una «fame di corpi senz’anima», la stessa che infiammava Pasolini, è un Eros estremo e stremato a dettare il verso, da cui l’estasi e la perdita, «l’uccello alto nella notte, le maschere / dell’erezione, il dolore: tutto ciò che mi sarà rubato», il godimento e l’insoddisfazione.

Bellezza sembra non aver mai sanato il proprio bisogno, la sua piaga d’amore. Continuamente afflitto da un’inconscia volontà di espiazione, ha sempre cercato di evadere dalla prigione della colpa, gridando in faccia all’altro il suo peccato, suo orgoglio e dannazione. Resta l’unico poeta italiano veramente confessional, termine che in lui si può meglio tradurre come “da confessionale”. Se Pasolini ha in qualche modo sempre arginato la sua smodata libidine attraverso la retorica razionalità del suo sentimento sociale, egli ha fatto della sua irriverente esecrazione dei tabù un gesto al limite del teatrale, talmente teatrale da trasformare lo stesso teatro in ingenua onestà espressiva ovvero totale aderenza del dire poetico al fare dell’esistenza. L’elaborazione formale dei contenuti non riesce ad arginare la loro ossessiva ripetitività, quasi che il bisogno di gridare al mondo la propria presenza costringa il poeta e la sua protesta a restare «senza stile, o rigore», come dice la poesia della raccolta io (1983) che guarda caso così comincia: «Mondo liberati di me / con un soffio liberati di me / senti la violenza del mio stonato canto…». Quel canto persecutorio del cadavere promesso che non trova pace, se non «nella misericordia che s’elimina / crescendo verso la dolcezza estrema / del suicidio più lento: vivere». Non è mai uscito Bellezza dalla trappola del suo paranoico guardarsi vivere, non è mai andato oltre la vischiosa necessità di darsi nudo in pasto agli altri, ingenuo e puro data la totale e continuamente ribadita sua ammissione di colpa. Sembra quasi che abbia bisogno di immolarsi sull’altare del giudizio dei borghesi benpensanti. Da bravo anarchico rifiuta la morale costituita per affermare il suo categorico rifiuto, la sua diversità bandiera. Come mai nessuno nella storia della poesia italiana, il poeta di Serpenta denuncia in pubblica piazza il suo essere eretico di disinvolto peccatore e, mentre accusa se stesso mostra agli altri le loro mancanze; mascherandosi da specchio rende visibile la vergogna nascosta in chi guarda. Sta tutta qui “l’utilità” del leggere il suo continuo elogio del martirio; all’hypocrite lecteur verrà svelata fino in fondo l’amarezza della comune miseria. «Il mostro va guardato negli occhi», sembra dire Pierrot travestito da Caronte «e solo possiamo ucciderlo spartendoci la pena… o uccidendo noi stessi». Giuseppe Piccoli, che di Bellezza era un estimatore e per tanti versi a lui vicino, scriveva: «Perché la grazia sia verde, / e sia verde il contagio, avvicinati: / io spalmo di olio le tue mani. / E per andare lontano, più lungi, / sarò amante del dolore cristiano ». Nella morte in croce sta forse l’unica redenzione possibile per chi è costretto a darsi, per liberarsi.

(da Atelier n. 31)

 

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