In viaggio con Magrelli (di Sandra Piraccini)
(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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IN VIAGGIO CON VALERIO MAGRELLI
di Sandra Piraccini
«Ci incontriamo di fronte alla biglietteria. Porto gli occhiali, ho un giubbotto verde e una borsa blu. Non le sarà difficile riconoscermi».
Stazione di Pisa. Ore 16,30. Lo vedo avanzare nell’atrio verso il tabellone delle partenze finché non si ferma quasi di fronte a me. Esito: non so come presentarmi. Poi, faccio un passo verso di lui e «Salve, signor Magrelli?».
Quando lo contattai telefonicamente per la prima volta, Valerio Magrelli quasi mi disarmò con la sua disponibilità: nonostante i numerosi impegni fra lezioni universitarie e conferenze, acconsentì ad incontrarmi, proponendo di fare insieme il viaggio in treno da Pisa a Bologna. Ancora non sapevo che quella originale soluzione sarebbe stata la migliore per ottenere ciò che cercavo: un dialogo informale che mi permettesse di conoscere l’uomo al di là del poeta.
Seduti su una panchina, attendiamo al binario l’arrivo del treno per Firenze. Sento di conoscere già questa persona che mi parla e gentilmente viene incontro al mio imbarazzo iniziale. La sua voce è pacata e sommessa, a volte quasi un sussurro, mentre ripercorre per me un po’ della sua formazione.
Mi racconta che dopo gli studi superiori ha frequentato corsi universitari prima in America e poi alla Sorbona di Parigi, dove ha seguito lezioni presso l’Università del Cinema. L’interesse per quest’arte audio-visiva si rifletterà in seguito nella sua poesia attraverso la centralità del tema dello sguardo, soprattutto nella prima raccolta Ora Serrata Retinae. Ma anche nella prima sezione di Nature e Venature, intitolata La Forma della Casa, l’occhio del poeta sembra aggirarsi come una cinepresa per le stanze deserte e desolate, animate solo da oggetti.
Dopo l’esperienza parigina, Magrelli si iscrisse alla facoltà di filosofia a Pisa, ma si laureò a Roma con una tesi in letteratura francese. La scelta di un argomento al di fuori degli studi prettamente filosofici non deve sorprendere perché egli ha sempre coltivato una grande passione per la letteratura, soprattutto francese, nel cui ambito al tempo dell’università era – ed è tuttora – molto attivo con traduzioni e saggi. La tesi riguardava un autore cosiddetto “minore”, Joseph Joubert, rimasto sconosciuto per anni e ancor oggi trascurato, uno scrittore, quindi, ai margini della letteratura. Già allora il poeta manifestava quell’interesse, che orienterà il suo sguardo sul mondo, per ciò che risulta abbandonato, dimesso, collocato nelle zone periferiche e solitarie della realtà: i rifiuti urbani su una spiaggia, le desolate «terrazze condominiali» di quartieri popolari, gli autobus vuoti di notte, le «molliche» di pane o i bicchieri avanzati sul tavolo dopo il pasto. In ogni caso l’uomo assente lascia spazio all’oggetto, residuo o scarto di vita, emblema della solitudine e della desolazione.
Prendiamo posto nel primo scompartimento vuoto. Il treno parte, la conversazione riprende. «Da qualche mese è uscita una raccolta che raggruppa tutto ciò che ho pubblicato con l’aggiunta di qualche inedito». Con lo sguardo assorto e perso nel paesaggio, Magrelli mi confida che l’idea di vedere in libreria l’edizione integrale delle sue poesie rappresenta per lui un grande traguardo, come una “fine”. Ancora ricorda l’emozione che provò nell’avere fra le mani il suo primo libro: si fermò a prenderlo prima di una partita di tennis e si chiuse nello spogliatoio per sfogliarlo, per leggerlo in uno stato di contemplazione. Ma nel 1980, dopo il grande successo di Ora Serrata Retinae, il giovane poeta rischiava di scomparire o di deludere le aspettative, come spesso capita agli scrittori debuttanti. La sua scrittura, invece, è cresciuta, si è evoluta e ottiene oggi il riconoscimento di una certa continuità nel tempo. Per questo la soddisfazione presente di Magrelli è, certo, diversa da quella passata, ma non meno intensa: deriva dalla sensazione di aver compiuto qualcosa, di essersi superato, di aver consolidato la sua immagine di poeta.
Indotto ultimamente a fare un’analisi di tutta la sua produzione passata, proprio in occasione dell’edizione completa, il poeta mi domanda con curiosità quale rapporto abbia io notato fra le tre raccolte. Il suo interesse per un mio giudizio mi prende alla sprovvista e mi imbarazza, ma, anche se in modo un po’ confuso, riesco ad esprimere le mie impressioni.
Ora Serrata Retinae è per me un libro straordinario per la padronanza del verso, la carica emotiva, la capacità riflessiva, la profondità e singolarità dello sguardo sul mondo, qualità che difficilmente si trovano combinate in un unico scrittore, per di più al suo esordio. Eppure mi ha lasciato la sensazione di una realtà poetica inscritta all’interno della camera da letto, dove il giovane poeta svolge il rito della scrittura, assunta come esperienza quasi totalizzante, chiuso nella sua autocontemplazione.
La prima raccolta mi è sembrata il seme, già straordinario, di una poetica che doveva evolvere nelle due opere successive, in cui si possono trovare similitudini e opposizioni rispetto alla precedente. Nature e Venature, riprendendo alcuni temi e aspetti del primo libro, li sviluppa in modo diverso e li affianca ad altri, costituendosi in tal modo come un’opera di più ampio respiro. Gli sguardi sul mondo sono molteplici: lo stesso Magrelli ha ammesso di essere passato con il secondo libro «dalla monoscopia alta stereoscopia, dal monolite al frammento». Una frammentazione ulteriore si realizza in Esercizi di Tiptologia, dove la minima unità lascia spazio alla varietà di forme e contenuti: non solo compaiono traduzioni e brani in prosa accanto ai componimenti in versi, ma anche l’oggetto della poesia si diversifica e amplia i suoi orizzonti. Infatti, alla realtà personale del poeta si aggiunge la storia collettiva, presente e passata, come se l’io poetico compisse un passo ulteriore verso l’altro e l’altrove, per uscire dalla sua dimensione relativa e limitata, alla ricerca di un contatto. Già il titolo, dopotutto, annuncia questo nuovo atteggiamento dell’autore: il termine tiptologia può indicare o la serie di colpi battuti sul muro e usati come linguaggio dai carcerati o i colpi battuti dalle anime sul tavolino durante le sedute spiritiche. In entrambi i casi, comunque, persiste quel tentativo di comunicare con una realtà diversa e separata, lontana e misteriosa, così come può essere percepita da ognuno di noi l’alterità, il mondo incommensurabile della non-soggettività.
Dopo avermi ascoltato, Magrelli sente il bisogno di prendere le distanze dal suo primo libro. «Ultimamente l’ho riletto e mi è sembrato scritto da un altro. Fatico a riconoscerlo come mio». Le ultime due raccolte, invece, appartengono in maggior misura alla sua sensibilità presente. Il motivo va ricercato, probabilmente, in quei sette anni che separano Ora Serrata Retinae da Nature e Venature.
Il silenzio editoriale non corrisponde ad una sospensione della scrittura, bensì nasconde un’attività frustrata e assillata dalla preoccupazione di non ripetersi. «Ogni volta che ho pubblicato un libro, ho sempre voluto che fosse una rottura con quello precedente: per meritare di essere letto, doveva esprimere qualcosa di nuovo».
Molto esigente e critico nei confronti di se stesso, lo scrittore accantona alcune poesie scritte subito dopo Ora Serrata Retinae, considerandole semplici echi della prima raccolta. La maturazione del secondo libro è lenta, ma comprensibile, se si pensa che in Magrelli non si dà nuova poesia senza nuovo dire né nuovo dire senza un rinnovamento del vissuto: l’evoluzione poetica va di pari passo, quindi, con quella personale e umana. E Nature e Venature è veramente il libro di un uomo cresciuto, che ha accumulato esperienze, approfondito e ampliato le sue conoscenze, che è uscito dall’egocentrismo giovanile. Il tema dello sguardo, del sonno, della scrittura serale è sempre presente, ma l’iconografia di Magrelli si arricchisce grazie ai vari interessi coltivati nel tempo scultura, archeologia, musica, fotografia, medicina, vita urbana, diventano fonti cui attingere per creare nuove immagini poetiche.
«Biglietti, prego», il controllore ci interrompe. Poi, Magrelli mi rimanda all’ultima poesia di Nature e Venature, scelta come testo di copertina della raccolta integrale, per spiegarmi meglio il suo discorso sulla scrittura.
Io cammino fumando
e dopo ogni boccata
attraverso il mio fumo
e sto dove non stavo
dove prima soffiavo.
Anche il poeta, ogni volta che scrive un libro, deve avere attraversato e superato quello precedente per cominciare di nuovo, ma ad un passo più avanti e arricchito del suo passato. «Sulla copertina il testo compare senza punto finale perché volevo esprimere, allo stesso tempo, l’idea di continuità e evoluzione. Lo scrittore quasi con una capriola torna a capo per ripetere il gesto». Si rammarica di aver pensato troppo tardi ad una soluzione tipografica più congeniale: i due punti musicali, che in uno spartito indicano la ripetizione della battuta, posti alla fine del testo sarebbero stati un invito a tornare a capo per ricominciare.
Penso al lavoro così assiduo e caparbio per giungere alla forma più adatta al messaggio che si vuole trasmettere: ogni minimo elemento della struttura assume una particolare importanza di modo che sottrarlo significherebbe modificare l’interpretazione dell’insieme. Ma rimango perplessa. Mi pongo dalla parte del lettore comune che può non essere in possesso di certe nozioni musicali: per lui i due punti alla fine del testo avrebbero costituito un enigma, un ostacolo alla comprensione. E così mi vengono in mente tutte le volte che, leggendo le poesie di Magrelli, ho dovuto consultare il dizionario per conoscere il significato di parole ricercate, latinismi e termini specialistici tratti da svariati ambiti professionali e culturali. Non posso fare a meno di esternare un mio dubbio: fino a che punto la poesia deve andare incontro al pubblico e deve essere accessibile e comunicativa per evitare di diventare un soliloquio. È ovvio che certe scelte linguistiche e formali finiscono col selezionare i lettori, col determinarne il numero e la qualità.
Magrelli mi spiega che, secondo lui, ci sono delle regole da imparare per saper leggere la poesia, così come per saper scrivere versi: in entrambi i casi non si può iniziare di punto in bianco. La poesia, oggi, è elitaria – e non significa che sia aristocratica – perché queste regole non sono comunemente insegnate. In Russia, ad esempio, il gioco degli scacchi, che da noi è così poco diffuso, è una disciplina scolastica e di conseguenza ha molti più adepti e appassionati. Così, se si desidera una poesia più accessibile, non bisogna adattarla al livello culturale della comunità, bensì fornire alla comunità gli strumenti per la sua fruizione, sempre che questa sia disposta a riceverli e a farli suoi.
È fondamentale che si superi l’idea di una lettura facile e impressionistica, che deve costituire solo il primo approccio ad un testo: il lettore deve voler partecipare attivamente anche scavando nell’etimologia delle parole, non accontentandosi del loro significato convenzionale. «Una parola nuova, particolarmente musicale, che in modo singolare riesce ad esprimere un’emozione e a creare un immagine poetica è un regalo che il poeta offre a chi è in grado di coglierlo» … un “regalo”: e questa la sensazione che ho provato quando il messaggio di una poesia si schiudeva davanti a me attraverso il significato recondito o poco conosciuto di una parola.
Di sicuro, una lettura approfondita richiede sempre quel dispendio di energie che, almeno in parte, dovrebbe bilanciare il difficile e impegnativo lavoro della scrittura. Ma alla fine il piacere è duplicato quando si ha l’impressione di aver colto le intenzioni del poeta, di aver risalito il suo stesso percorso, di aver fatto insieme e grazie a lui il salto ad un livello superiore nell’uso delle parole e nella capacità di “sentire” se stessi e la realtà circostante. Una simile modalità di approccio alla poesia esige tempo, pazienza e un continuo ritornare ai testi in modo tale da stabilire con essi una certa consuetudine. Per questo Magrelli si dimostra molto scettico nei confronti delle letture in pubblico che, secondo lui, favoriscono la diffusione di un tipo di fruizione superficiale e passiva. Infatti, nel breve spazio di tempo a disposizione, se si vuole coinvolgere e interessare gli ascoltatori, si cerca di essere immediati e concentrati, finendo così con lo svalutare il messaggio reale della propria scrittura. Non sono del tutto d’accordo riguardo la presunta inutilità delle letture in pubblico. Proprio durante una di queste mi avvicinai per la prima volta ai versi di Magrelli e l’ascolto fece nascere in me, come di sicuro in altre persone, un desiderio di approfondirne la conoscenza che non si esaurì velocemente.
In quell’occasione mi colpì anche l’estrema differenza fra la sua poesia dimessa e introspettiva e quella per così dire “civile” di un altro poeta, suo coetaneo: Gianni D’Elia. Mi incuriosì come due persone che avevano vissuto gli stessi eventi storici e politici, pur appartenendo alla stessa generazione, avessero potuto reagire in maniera così diversa. Magrelli ritorna mentalmente agli Anni Settanta che testimoniarono la proliferazione di ideologie e di sperimentalismi in tutti i campi, ma questo disordine istituzionalizzato non si confaceva con il suo spirito così razionale, composto, riflessivo, accentuato anche dalla sua formazione filosofica. «Il passaggio dal liceo sperimentale all’università rappresentò per me un tanto desiderato ritorno all’ordine».
Egli attraversò quel periodo “caldo” rimanendo ai margini e venne indicato come conservatore nonostante le sue posizioni di Sinistra: in realtà, aveva solo presagito, a differenza degli altri, l’inutilità e la fugacità di simili atteggiamenti così apparentemente eversivi. Rifiutò soprattutto l’idea di poesia civile, ideologicamente impegnata e demagogica che venne imposta come unico modo possibile di scrivere in quella determinata situazione politica. Convinto che l’espressione poetica dovesse rimanere individuale, inclassificabile e non subordinata a fini che andassero al di là della poesia stessa, egli oppose agli svariati “ismi”, il suo modo particolare di sentire e vedere. È la voce sommessa, pacata, quasi sussurrata di Ora Serrata Retinae che, consapevole del suo essere relativo, fa da controcanto alla poesia altisonante, proclamatoria e pretenziosa allora in voga. «Ciò che più conta è il proprio modo di scrivere, che non può essere limitato da nessun tipo di costrizione né formale né ideologica».
Firenze. Cambio di treno. Assorto nel controllare l’orario e il binario della coincidenza per Bologna, come perduto in quel mare di cifre e nomi geografici, Magrelli non si accorge del nostro ritardo. Stanno chiudendo le ultime porte: rischiamo di vedere partire il treno sotto i nostri occhi ed io non faccio molto per evitare che ciò accada, distolta dal ricordo di alcuni versi che quell’atteggiamento un po’ smarrito mi ha simpaticamente richiamato alla mente.
Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto
[…]
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno
La montaliana «maglia che non tiene» fa eco dentro di me e ritrovo in Magrelli lo stesso interesse per ciò che rappresenta una rottura della regola e della cosiddetta normalità, o meglio una incrinatura, silenziosa ma insinuante, della visione del mondo comunemente accettata. Lo sguardo singolare del poeta riesce a cogliere i difetti, le asincronie, le mancanze che si rivelano in un pasto non consumato, assunto a metafora della vita, nell’orrore del capello la cui punta si duplica o nel movimento non più elastico di un ginocchio. Si ha comunque la sensazione di un sottile disagio dovuto alla percezione di una disfunzione recondita: l’uomo stesso è una «creatura lussata» in cui un osso si è spostato e duole, in cui
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.
Saltiamo sul treno di corsa e prendiamo posto. Magrelli mi chiede qualche minuto per sistemare il materiale per il convegno sulla traduzione, che lo impegna a Milano il giorno dopo. Non passa molto tempo prima che mi renda partecipe del suo lavoro, mostrandomi l’esempio di un testo arabo da lui tradotto. Ci ritroviamo a discutere dei vari problemi posti da una traduzione, concordiamo sul fatto che il criterio di fedeltà letteraria comporta una perdita di valore estetico e che, spesso, una buona traduzione coincide con la creazione di un nuovo testo poetico. Mi ricordo di aver letto un suo articolo sull’”Indice” del marzo 1996, in cui definiva la poesia un «nodo di informazioni sintattiche, lessicali, metriche, ritmiche, retoriche». La traduzione può rispettare solo alcuni di questi elementi, non certo il loro insieme; quindi «la fedeltà a un criterio compositivo implica sempre almeno un’infedeltà verso un altro».
La conversazione scivola facilmente sul contenuto dell’Imballatore, una sezione di Esercizi di Tiptologia che raccoglie quasi esclusivamente delle traduzioni (compresa quella del testo arabo, intitolata Da Ibn-at-Tubi), dove è possibile trovare per due poesie una doppia traduzione in italiano. Mentre nel caso di Giuliano Egizio, Magrelli col secondo testo cerca di modernizzare lo stile e il linguaggio, per Proudhomme compie un passo in più. Alla traduzione canonica segue, infatti, un rifacimento del tutto personale in cui intende riprodurre visivamente la crepa che incrina il vaso nel testo originale. Il risultato è una progressiva frantumazione del discorso, prima, e delle parole, poi: i cocci del vaso sono queste schegge sempre più piccole del linguaggio.
Il legame fra forma e contenuto già era presente anche in una poesia di Nature e Venature. Nel Piato dell’H si fa riferimento al processo fisico della calefazione che consiste nella trasformazione di un liquido in gocce, una volta venuto a contatto con una superficie caldissima. Allo stesso tempo, la lettera H è posta arbitrariamente davanti ad alcune parole di fine verso: come una goccia su una superficie, essa scende lungo il profilo della poesia di tre versi in tre versi.
L’aspetto visivo di un testo ha sempre avuto un’importanza fondamentale nella poetica di Magrelli sia per questo adattamento della forma al tema («Nel profilo dei versi / io riproduco la sagoma / dentellata delle chiavi») sia nell’uso frequente del “calligramma al contrario”, cioè nella ricerca costante di oggetti che ricordassero per analogia la conformazione del testo poetico. Così, di volta in volta, i versi diventano le assi in legno, che fanno capo alla chiglia di una nave, o le vertebre della spina dorsale o, ancora, il loro andamento è paragonato al «zig-zag sorridente» della spola di un telaio.
In un momento di silenzio guardo il paesaggio scorrere velocemente verso la fine del nostro incontro. Ho fra le mani la traduzione tratta da Esercizi di Tiptologia, la raccolta che più di ogni altra si è distanziata dalla modalità di scrittura di quella precedente. Il cambiamento riguarda soprattutto la struttura che per la prima volta accoglie anche dei brani in prosa. «Col terzo libro mi sono cimentato in qualcosa di nuovo. Ed ora mi piacerebbe provare a scrivere un romanzo. Chissà…». Poesia, traduzione racconto, romanzo: c’è in Magrelli un desiderio continuo di oltrepassare i limiti personali esplorando tutte le forme possibili di scrittura.
Ancor prima di Esercizi di Tiptologia Magrelli aveva pubblicato nel 1991 una piccola plaquette il cui titolo, Il Viaggetto, annuncia una prosa di tipo “itinerante”. Nei quattro brani, che costituiscono rielaborazioni di reportages giornalistici, lo scrittore ci guida attraverso il paesaggio che separa Roma da Ostia, per condurci nella periferia della capitale. Ma non si tratta di una semplice descrizione: la constatazione del degrado e l’amore per la sua città tradiscono un trasporto emotivo che a volte si traduce in passi di prosa poetica.
Quando lessi Il Viaggetto non potei fare a meno di notare un profondo legame con il film Caro Diario di Nanni Moretti che, nel primo dei tre cortometraggi, vaga per le strade di Roma con la sua vespa e poggia lo sguardo di volta in volta sulle case popolari, i quartieri bassi, le villette di periferia, la spiaggia deserta di Ostia e si ferma in ultimo, come lo scrittore del Viaggetto, all’idroscalo dove rende omaggio al monumento funebre di Pasolini. A rafforzare la mia idea che Moretti si fosse ispirato al testo di Magrelli e che esistesse fra i due un rapporto di amicizia, fu la scoperta che lo scrittore compariva nell’ultimo cortometraggio dello stesso film nei panni di un medico: un ruolo più che adatto per questo poeta che fin dalla prima raccolta aveva mostrato un profondo interesse per la medicina e per varie forme di patologie. Sulla scia di queste considerazioni, introduco con lui il discorso su Nanni Moretti, ma rimango delusa nell’apprendere che la loro amicizia è, in realtà, nata solo in occasione delle riprese del film. «Mi divertivo a indispettirlo, ricordandogli che la mia vespa era più vecchia della sua». Dal contatto più o meno diretto con Moretti e i suoi film nasce una prosa di Esercizi di Tiptologia, intitolata Rivelarmi al gelo, che è dedicata proprio al regista romano e alla loro comune esperienza della pallanuoto. «Quando vidi Palombella rossa rimasi folgorato: fu come rivivere certe situazioni e sentimenti delta mia adolescenza».
La conversazione ristagna. Il paesaggio bolognese si annuncia dal finestrino. Risento come un’eco le ultime parole di Magrelli: «Purtroppo mi accorgo di scrivere con minor assiduità: amo quello che faccio e mi appassiona, ma tutti gli impegni mi privano anche del tempo materiale per dedicarmi alta mia poesia».
Ci salutiamo e mi dirigo verso la porta, dove in piedi attendo l’arrivo in stazione.
(da Atelier, n. 4)
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