La penitenza di Calaciura

C’è solo un fattore che raddoppia la soddisfazione, al termine di un buon libro: la certezza di avere tra le mani un volume che non molti altri sfoglieranno, perché l’autore è poco noto o il testo poco reclamizzato o, come in questo caso, perché uscito presso un piccolo editore (Mincione).

Giosuè Calaciura non è certo sconosciuto ai lettori più raffinati ma io, che ho un rapporto non sempre lineare con la narrativa (in molti sensi), ne avevo letto (e riletto) soltanto, a suo tempo, il libro d’esordio, Malacarne. Ora mi sono goduto questa’opera in minore, che potrebbe in quanto tale tramutarsi in un accesso strategico al suo lavoro.

Questo romanzo è sfuggente. Nelle mani si presenta come un libercolo, ma il titolo e l’immagine promettono il peso di un classico. La storia comincia come un romanzo dell’Ottocento, poi man mano trascolora e dà vita a un romanzo metafisico. Merito di una lingua sapiente, che come pulviscolo animato può all’improvviso addensarsi, creare gorghi, prendere svolte, o semplicemente piovere con monotona costanza, ma sempre lasciando incerti sulla sua provenienza.

L’effetto è quello di appropriarsi degli spazi claustrofobici del racconto, di provare ansia e piacere insieme, come quando si ascolta la pioggia battere sul tetto: una voce che ci culla e ci instilla l’angoscia degli spazi limitati, mentre ci ricorda la sua imperscrutabile origine in qualche principio che non possiamo riconoscere.

L’arte cattura sempre lo sguardo di qualcosa di estraneo che ci riguarda.

 

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