L’arte della fuga
La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.
Forse conoscete quella barca che si chiama Desiderio.
Henri Laborit, Elogio della fuga.
Quando qualcosa di vero accade, ci emoziona. Non credo sia possibile scoprire una verità senza venirne almeno momentaneamente modificati. Una verità devitalizzata, già conforme alle attese, semplicemente non avviene.
La poesia si oppone da sempre al perpetuarsi del noto e tenta invece di restituire anche alle cose sapute la novità del loro accadere sconvolgente, combattendo contro la nostra cultura occidentale satura e ormai insensibile, poiché stimolata all’eccesso, guidata da desideri drogati.
Quando in un testo la verità accade, ci troviamo di fronte a un evento linguistico; quando in un testo letterario la verità si ripete, siamo di fronte a un evento stilistico.
L’impressione che nasce dalla frequentazione della poesia contemporanea è quella di molti autori bravi nello stupirci con il loro stile, dietro al quale però non riluce alcun movente straordinario, nessuna esperienza di verità.
Ci gratifica invece l’incontro con autori che non giocano affatto a fare i letterati, che si interrogano davvero con angoscia sulla forza del loro movente e sulla consistenza del loro dire all’interno di un’opera più vasta.
L’opera comune di cui ci si sente parte non è un manifesto ideologico, ma lo stesso misterioso moltiplicarsi dell’essere in molte forme. Da qui la sfida della traduzione, che lanciamo a fondamento di questa appartenenza a qualcosa che trascende le intenzioni individuali: all’accadere della verità nella lingua, appunto, cioè alla vitale capacità di estraniarsi di fronte a un’immagine più vasta delle nostre ragioni.
Praticare la traduzione come forma di apertura all’altro è l’unica forma di pensiero ricca di futuro, di questi tempi, perché davvero non ha più senso collezionare la parola altrui come espansione del proprio punto di vista (del proprio stile). Siamo già prigionieri di una società di replicanti; l’unico ossigeno per il pensiero deriva dalla pratica costante della fuga – purché, naturalmente, non diventi una strategia programmabile. Non parliamo, dunque, di sperimentalismo nel senso di un’ansia di mostrarsi diversi: la verità è straordinaria e semplice allo stesso tempo perché capace di rinnovarsi al contatto della vita, non del verso nuovo che può, al meglio, partecipare all’evento.
Mettersi all’ascolto di altre voci, alla ricerca di questa capacità di emozione che ci proviene dalla differenza, è l’unica disciplina che può salvare dall’auscultazione della parola che parla solo di sé stessa, dalla distillazione stilistica che ha già perso in partenza la scommessa di colpire al cuore la vita. L’essenziale è sempre un differire, è ciò che sfugge alle nostre definizioni.
In questa felicità di inseguimento si muove la preveggenza che, nel momento in cui l’altro ci emoziona, ci racconta ancora di noi, fuori della nostra cultura, sfiorando radici profonde dell’essere umano col soffio di una lingua perduta, ma che non ha mai smesso di parlarci.
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