Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

Poeti contemporanei: Beppe Salvia

La vicenda di Beppe Salvia presenta molte analogie con quella di Remo Pagnanelli, anche al di là dei dati biografici che pure finiscono, nella scelta di entrambi di abbracciare volontariamente la morte, per avvolgere i loro versi con un’aura tragica: questi scrittori sono divenuti emblemi non solo di due linee di ricerca della poesia di fine Novecento (l’area romana e quella marchigiana), ma di un’intera generazione e del suo dramma segreto (Di Palmo, nella sua curatela I begli occhi del ladro, vi accosta anche i casi di Giuseppe Piccoli, di Nadia Campana, di Eros Alesi, di Angelo Fasano e di Ferruccio Benzoni). Non si pone in apertura questo raffronto per cedere alla suggestione di fissare, nei due poeti, dei medaglioni che finirebbero, in modo del tutto gratuito, per suggerire uno sbocco estetizzante nella loro vicenda paradigmatica, ma per avvicinare con discrezione un dato non eludibile se si vuole tracciare la Stimmung di un’epoca.

Anche solo ripercorrendo alcuni omaggi che gli amici hanno attribuito a Beppe Salvia si colgono i dati essenziali di una voce poetica centrale e di un’unità di intenti diffusa. C’è, per esempio, un testo di Silvia Bre che esprime in modo compiuto quel senso di coralità della scuola romana: «Andartene fu un ordine severo / al quale continuiamo ad obbedire – / siamo rimasti qui, dove ogni tanto / si nomina il tuo nome, / […] Ancora non sappiamo / quale male fu tuo che non è nostro». Con toni più prossimi a cadenze retoriche pure Claudio Damiani rende onore all’amico: «E tu, caro, / che sei una parte di me, che sei nel mio cuore / nella parte più interna, / Beppe Salvia, / caro fiore, reciso»… Allo stesso modo Giselda Pontesilli riallaccia, sulla scorta di un dialogo non interrotto, la propria figura con quella dell’assente, sempre giostrando intorno alla parola chiave cuore, fino a esplicitare il sentimento umanistico entro cui si coltiva devotamente la letteratura: «È scritto in fondo solo ciò che devo / ma non muta il cuore del presente / muto è il cuore […] / È il cuore del presente. / E intanto leggo meravigliosamente / la lettera di Petrarca a Guido Sette / leggo Virgilio, Orazio, Cicerone / rientro in casa, riesco sul balcone». Gabriella Sica, invece, ricorda in Sia dato credito all’invisibile la figura dell’amico con una prosa, nella quale ne rimarca la centralità generazionale e accenna a quel progetto di chiarezza, di classicità, di sincerità che rappresentava la scommessa di Salvia e che costituisce altresì un nucleo comune fra diversi autori (a quelli presenti in queste pagine si aggiungano almeno Arnaldo Colasanti, Gino Scartaghiande, Marco Lodoli, Giuliano Goroni e Pietro Tripodo):

Restituire un cuore al mondo, fare del cuore il metro etico ed estetico della vita è gesto ripetuto nella continuità della tradizione letteraria, da Saffo a Sant’Agostino. Con un evento del cuore, Petrarca e Dante hanno trasformato il mondo occidentale.

Tuttavia, pur nella continuità, uno stesso slancio si rinnova. E questo aveva fatto Beppe, rilanciando con nuova forza, nel deserto del tempo moderno, in un Novecento spiritualmente impoverito, il suo richiamo tenero e rigoroso al cuore. Cuore era anche l’idea cinese di cui parla Beppe, che comprende il concavo e il convesso, lo Yin e lo Yang: «il tao è il pensiero della civiltà senza fine».

Cuore è giustappunto il titolo della raccolta principale di Salvia, che reca in aggiunta la sigla (cieli celesti), utile per fissare da subito un dato materiale e uno timbrico, in parte contrastanti e in effetti tipici di due maniere sempre in cerca di una sintesi: si allude al modulo allitterativo (protratto talvolta fino al bisticcio e alla sequenza costipata), così cospicuo da non necessitare di campionature per esprimere la sua funzione generativa dell’espressione poetica, e alla levitas di una voce che attraversa il «dolore di vivere» puntando sulla grazia e sulla trasparenza comunicativa, quasi una riconquistata naïveté, dati stilistici di una serie di qualità morali (bontà, sincerità, modestia ecc.) che definiscono il retroscena profondamente etico di una ricerca letteraria tesa a un ideale umanesimo senza tempo.

Tuttavia, fin da Estate, l’unica raccolta pubblicata in vita, si evidenziano i tratti salienti della sua scrittura. Annoveriamo, in estrema sintesi: le pose manierate («Una di pinastri in riga muta teoria» è un incipit memorabile), il gusto arcaizzante sia nella grafia sia nelle scelte lessicali (si prenda anche il minimo sintagma «l’ale» come spia frequentissima), l’insistenza sulla rima e sull’aggettivazione a denotare smaccatamente i versi, la predilezione dei temi semplici e in particolare l’evocazione degli animali (il cane Garibaldino, il gatto «farlingotto amico»), il tutto a conferire una piega dolcemente sentimentale, ma mai patetica, ai testi, che accreditavano una lettura antinovecentesca della poesia contemporanea. Spuntano infatti i nomi di Saba e di Penna quali numi tutelari di una tradizione che risale, a ritroso, a Pascoli e a Leopardi, anelli di congiunzione con Petrarca e con la prediletta poesia classica; ma a questo ritratto andranno aggiunti subito inflessioni anche di altra natura: si pensi a certi guizzi improvvisi, se non propriamente surreali, quantomeno eccentrici e divertiti, palazzeschiani, come nel caso di tante apparizioni (il «magro telegrafista» con il suo «sacramentare vacuo dalla chiostra / dei denti, sotto baffi / califfi» o «Pinaccio il figlio d’Isolina», per esempio) o di giocosi contrappunti fonici (ecco il finale della poesia La radio manda una canzone triste: «vorrei cantar carioca come un’oca alla luna»). Si registra anche qualche accento gozzaniano in virtù di un imbastito armamentario di oggetti frusti («Nella cassapanca è l’abito bianco / con il corsetto trapunto di perline // e sono i fior d’arancio e un odore / tutto comanda come di mela vizza) o di certe atmosfere. Ma la spiccata letterarietà dei componimenti, attraverso citazioni di varia natura, poteva talvolta riabilitare anche Montale (beninteso il primo, ancora protonovecentesco a sua volta nella scelte lessicali), magari velatamente parodiato («una muraglia / oltre cui vedo, e un asino che raglia»).

Non c’è dubbio, comunque, che sia Cuore la raccolta più compiuta. In essa si alza il dosaggio arcaizzante e raffinato («pel» anziché «per il», «aire», «destino pretto» o «pretto rispetto», «usbergo», «fida voluttà»…) a rimarcare il virtuosismo metrico, di cui ha ben scritto Di Palmo:

Lo stesso Salvia sembra stabilire una sorta di corpo a corpo linguistico stridente con il sonetto che lo porterà a sviscerare ogni aspetto peculiare della sua struttura, fuorché ristabilire uno schema tutto sommato «regolare». Ci si imbatte così in sonetti caudati e non, con rime occasionali, senza rime o con rimalmezzo, con la spaziatura tra le strofe e senza spaziatura, ecc., con una libertà espressiva totale nell’articolare le varie combinazioni possibili: gli stessi endecasillabi sono a volte sostituiti da ipermetri e ipometri (in particolar modo decasillabi). Sembra che la raccolta Cuore sia, da questo punto di vista, un’ininterrotta, inesauribile variazione intorno alla forma del sonetto.

La colluttazione con la piattaforma metrica (si pensi che per lo più il dettato non ha soluzione di continuità nel testo) è in qualche modo sintomo di un dissidio profondo: allo sguardo dell’autore, le cose appaiono «lontane e vicine» insieme. La levitas della prima raccolta ora cede spesso il posto a note più cupe («Anche a odiare ho dovuto imparare / e dagli amici e da te e dalla vita intera») e drammatiche (emblematico il sonetto in cui si descrive il rituale infero di iniettare la «bianca bianca eroina»: «È presa la vena, carezzala, fa / arco col braccio»…). Con tutto ciò si palesa un superamento di certi modelli (Penna in particolare, dal momento che la fitta griglia testuale così articolata mantiene meglio gli accenti sabiani) e una consonanza con certe tensioni coeve, non solo per la sperimentazione neometrica, anche se probabilmente per il lettore resteranno memorabili soprattutto i passaggi in cui sulla superficie del dolore, della malattia e della scoperta dell’odio aggalla nuovamente quella leggiadria, quella svagatezza che riesce persino a tramutare il dissidio in un motivo felicemente letterario: «Ora ho tempo per leggere per scrivere / e forse faccio un viaggio, e forse no. / Sono felice e triste. Sono distratto / e vagando m’accorgo di che è perduto». Indimenticabile in tal senso è l’apparizione di quella «nuova casa, bella» nonostante sia «grigia e malandata, / con tutte le finestre rotte, i vetri / infranti, il legno fradicio», perché basta «il sole che prende ed il terrazzo» e «perché da qui si può vedere quasi / tutta la città»: gli altri poeti della scuola romana ne faranno non a caso un topos coonestato da reminiscenze classiche.

(da Poeti nel limbo)

 

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