Poeti contemporanei: Andrea Gibellini
Le ossa di Bering si aprivano posando lo sguardo su «pozzanghere vicine al corso del selciato», vale a dire specchi di realtà minute, «di chi ha vissuto aperto gli occhi e chiuso». In quell’immagine si esprimeva bene il senso di una voce un po’ depressa, che all’interno di un biografismo pudico (quasi rimosso come una colpa) si manteneva ostinatamente fedele all’accento emotivo che origina la scrittura, senza frapporre mediazioni intellettualistiche fra l’esperienza e la pagina, volenterosa semmai di impastare l’esistenza con il paesaggio, con la dizione sporca (non lirica e rilucente) e riavvolta su sé stessa di chi, solitario e monologante, viaggia radente la prosa.
Anche il passo descrittivo e riflessivo tendeva a disegnare, con versi ampi e movenze leggere, una distensione di immagini (procedendo spesso per accumuli e senza disdegnare gli aggettivi) in cui le emozioni potevano trovare pause, dolci risalite, facili discese, come nel prediletto scenario collinare appenninico. Anche i frequenti incisi non rappresentavano fratture, ma slarghi ulteriori, così come i tre punti di sospensione intervenivano spesso a sfumare i movimenti ondeggianti.
La lezione di Bertolucci e di Sereni era stata subito avvertita. Dal primo derivava l’immersione sempre cercata nel paesaggio, entro il quale, in Gibellini, anche la città si inseriva come uno degli elementi costitutivi, non come presenza contrastiva. La lezione sereniana era visibile principalmente nella tensione interna verso la prosa, ma in modo più acclarato in certe clausole protratte in un ultimo strappo del respiro, come per una leggera accelerazione finale, in una flebile fiammata che consuma nell’estremo slancio ogni velleità gnomica. Si vedano questi esempi: «l’ultima livida luce che rimane luce non più disperso buio», «smorto ancora vivo oscenamente più dei vissuti vivi», «Ma è un giorno, una mattina chiara mite, come altre» (verso che chiude il libro e in cui è importante rilevare l’atto della cancellazione di sé, l’abbassamento di ogni pronuncia apodittica, che richiama alla memoria nella sospensione temporale anche il Luzi del Dopoguerra).
Se il titolo di quella raccolta poteva rappresentare il momento disforico di una voce poetica che andava confrontandosi, dentro di sé, con quella dei maestri sul senso stesso della poesia nel mondo, il titolo della seconda, La felicità improvvisa, ne rappresenta il momento euforico. Non si vuole con ciò asserire che ci sia una rottura troppo netta tra le due fasi: dimostra il contrario il fatto che già poco dopo il primo libro Galaverni poteva individuare, nelle poesie edite in rivista, il novum che ora distingue La felicità improvvisa: «una complessiva ricomposizione strofica, una maggiore uniformità nella misura dei versi, la preferenza per la semplicità nominale dell’elencazione ellittica, l’abbandono del riferimento a precisi modelli letterari e, in particolare, una notevole semplificazione linguistica, quasi cercando un ordinary language che tragga un vantaggio emotivo dalla sua stessa confidente familiarità». Ma ci sono diversi indizi di un rapporto più sussultorio tra il poeta e la propria materia, per esempio nel ricorso a una sintassi maggiormente irretita (come dimostrano i segni interpuntivi ridotti al minimo), nella presenza quasi immotivata di reali fratture nel profilo testuale (si veda Untitled: «il / punto fisso», «batticuore dei / nostri passi», «prima di / arrivare»), nel confronto più serrato con la città, nella ricerca di una maggiore visionarietà che si trova, talvolta, a gestire distrattamente le scorie di una memoria letteraria composita e irrequieta, che si riscontra nell’inserimento nella raccolta di prose alla maniera di Montale (Exit fanciullo), in formule tratte da poeti coetanei (la «veglia interna» di Riccardi), e perfino in calchi petrarcheschi («E voi che ascoltate queste mie povere parole»).
Nella Felicità improvvisa assistiamo insomma alla ricerca di connotati stilistici più robusti («Risenti il silenzio della pioggia e dei giorni, non basta più giocare all’uomo invisibile fra gli uomini, adesso tutto si è fatto più pesante, tremendo, vorresti essere quella pioggia che non cade più»), che fanno emergere l’agonismo interiore tra desiderio di effusione lirica e colpa di esistere: «Fermarmi in una brughiera di malto / trovare un calmo albergo fuori mondo / sparire, sparire per alcune ore / e sussurrare fra me dolci parole / dove l’autunno come oggi vibra rosso dorato / posarmi lievi membra e non più parlare» (e non si potrebbe in quest’ultimo esempio rinvenire un Penna rovesciato dalla sua paradossale quiete?). Tale agonismo si palesa nei toni più accesi e in qualche strappo nel registro espressivo, come in Lettere all’Italia: «Non voglio dirti il veleno e l’amore che provo. […] Ed ora che si è penetrati nell’età adulta / giusta (la nostra maturità!) ma poco confortevole, / molti se ne vanno o dicono della tua inesistenza. // Partire? Mi chiedo – è follia come restare, / ma partendo le parole non avrebbero più sentimento // lasciando la terra che mi ha distrattamente cullato».
Il desiderio di trovare una giusta collocazione di sé diventa emblematico nella giustapposizione di due poesie come La mia città e Piccola elegia per Roma: al rifiuto espresso nella prima («La mia città non è una città // vive tra il fiume e la campagna / è sospesa vicino alle colline / […] Non voglio e non vorrei essere la mia città»), segue la dichiarazione del fascino controverso che la capitale esercita sul poeta, non senza chiamare in causa esplicitamente illustri modelli (anche se qui è forse più vantaggioso cogliere nel titolo e nella citazione pascoliana in esergo un ammicco alla “scuola romana” contemporanea): «Oggi ho lasciato, nel silenzio delle lenzuola, il respiro di chi amo / sono salito come in preda da collera animale / dal tepore avvolgente al bagnato perfido autunnale / avviandomi semicosciente ad altro viaggio / con curiosità intrisa di dolce tristezza, vegliando disperso me stesso […] Ma tu, Roma, hai il celeste sopra le case che ti fugge variopinto e leggero / […] così Virgilio o Catullo immersi dopo l’inverno / da legittimo desiderio in questa plaga meridionale ma anche Brodskij e Pasolini, / la fragile ferita in sé nel petto come stemma dorato / di un apprendista dio terrestre che non ha più confini / […] E tu oggi per me, / in quest’altro solitario crepuscolo invernale, / hai un cielo rosso fuoco, sei sensuale / come una mulatta dagli occhi orientali che seduce con sembianze occulte».
In questa irrequietudine è tutta l’angoscia di un poeta ancora in dissidio con la propria immagine, di un io conteso dal desiderio di anonimato («Per loro potrei essere chiunque / […] Ma io non sono nessuno e nulla di tutto ciò. / A volte non sono neanche me stesso. / Sono solo uno che viaggia / da un luogo ad altro luogo») e dalla volontà di emergere: una voce a metà strada fra la maturità inesorabile e la «sfinita fibra di una gioventù incandescente».
(da Poeti nel limbo)
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