Poeti contemporanei: Gilberto Sacerdoti

Autore di un libro al decennio, Sacerdoti con Vendo vento conferma la stessa poetica giocosa e indolente delle raccolte precedenti. La sua scrittura «avara, esosa e ironica», scriveva Niva Lorenzini, «coniuga lo stupore cantabile di Saba con gli artifici di un’intera tradizione rimatica, per dare voce ferma, evidenza piena a realtà mentali minuscole e persistenti». La quarta di copertina del volume einaudiano chiama in causa anche Penna e «un certo filone inglese, da Hardy e Hopkins fino ad Auden e Larkin». (Sacerdoti, docente di Letteratura inglese a Roma, è in effetti anche traduttore. Si veda, per esempio, la versione di Veder cose di Seamus Heaney per Mondadori, con l’ardua scelta di non mantenere la scansione versuale dell’originale, ma di espandere su più versi l’inevitabile dilatazione che il compatto inglese di Heaney – e l’inglese tout court – comporta in italiano).

Ma qui, nel gioco funambolico e capriccioso dell’autore, i riferimenti potrebbero essere molti, restando comunque aleatori. In Vendo vento anzi, si perde anche quell’ossessione per la plasticità del mondo che Giorgio Manacorda apprezzava e considerava come il centro del precedente Il fuoco, la paglia, se non altro per i continui riferimenti alle arti plastiche, non ultima l’Apostrofe a una statua che chiudeva il libro con «qualcosa di ‘foscoliano’», addirittura. Le superfici del mondo, per carità, restano ancora il punto di partenza della poesia, ma tutto, in fondo, si riduce a pretesto. Non è l’oggetto da osservare che importa, ma il caleidoscopio delle parole che si mette in moto.

C’è forse un brano che può esprimere la poetica gratuita e compiaciuta dell’autore: L’assurdo? D’accordo!: «Non ritiene di fornire / spiegazioni del suo agire, / divulgare fini o mire? / Faccia un po’ come gli pare. // Chi son io per giudicare, / io creatura, lui creatore? / Si diletta di vacare? / Vachi e s’abbia in più il mio amore».

In versi e strofe per lo più regolari, che prediligono settenari ed endecasillabi ma non disdegnano inconsueti ottonari, Sacerdoti offre il proprio repertorio di rime o assonanze sapide, ricercate (es.: qualunque : adunche : stanche : ananke nel profilo di una sola quartina), spesso anche frante (che si appoggiano alla congiunzione e), insieme ad allitterazioni («E te, Toni, t’avrà atteso?») e paronomasie, alla ricerca della boutade o del motto conclusivo: «Bevuto è bello aver avuto sete / fumava muto il porfido estasiato» (Pioggia d’agosto). Il gusto per il fulmen in clausula, insieme alla predilezione per gli accumuli e certe metafore («Pungila, penna, oro del pennino, / bisturi bello, alabarda ardita»), rinviano a una poetica barocca, di cui in effetti egli è frequentatore, come studioso. Il tono scanzonato ha naturalmente l’effetto di degradare i congegni metrici in un ritmo da filastrocca, fino all’aperta parodia, all’uso di zeppe e iterazioni irriverenti. Ma la vis ironica corrode pure la lingua: la preferenza per bisillabi e monosillabi giunge al parossismo («Ma quelle belle, belle / che…, che…, mah!»), vale a dire alla pura sillabazione sonora («di shh!, e aah!, e sì!»); altre volte sono invece le parole sdrucciole («Acquerugiola, / qualcosa mugola, / inumidisce l’ugola. / Resta un po’, nuvola») a regalare qualche svago, più raramente termini poco comuni e neologismi (noria, egopacità, sdilinquisciti, entomata, naumachia, postprandiale). A livello tematico, invece, sono le memorie letterarie, il mito, la scienza e specialmente la religione a essere bersaglio della dissacrazione, che si avvale sovente di un latino snocciolato nelle sue formule più stereotipe o utilizzato per i titoli, come nella seguente poesia, che riportiamo per intero come paradigma del modo di operare del poeta: Extra ecclesia [sic] nulla salus: «No, / io non t’amo e tu non m’ami, / mamma chiesa, chiesa mamma. // Ma, / se la mamma mia non m’ama, / mamma mia, chi m’amerà?»

Si tratterà pure di una bella performance di alta scuola formale, ma nei prossimi dieci anni non vivremo d’attesa.

(da Poeti nel limbo)

 

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