Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

Poeti contemporanei: Riccardo Held

Il guizzo irriverente dell’azzurro di Riccardo Held si presenta nelle vesti di un canzoniere suddiviso in sei sezioni, che articolano e complicano (al limite: contraddicono) il discorso soggiacente, non del tutto esplicabile, ma ben racchiuso nella struttura generale della raccolta, grazie al tenore stilistico uniforme che la permea. La coerenza si avverte nel darsi, in aenigmate, di una trama (si veda come alcune poesie attacchino come riprendendo un pensiero interrotto altrove), che ha un indubbio radicamento biografico: «Qui non si toglie mai dall’esperienza / nessun altro migliore insegnamento / che non sia tutto un gioco di pazienza». Tuttavia, il dato empirico subisce una forte rielaborazione attraverso la scrittura: la «maniera» che ne risulta, insomma, non è soltanto il contrappeso sapiente adottato per bilanciare il vissuto, ma una sorta di via terapeutica praticata con dedizione: lo vedremo ripercorrendo, rapidamente, lo sviluppo implicato di sezione in sezione.

Diciamo subito, però, che la maniera additata è facilmente riconducibile a quel «rinascimento della forma che accomuna alcuni dei migliori talenti della nuova poesia italiana», come recita l’aletta del volume. Eppure, va immediatamente annotata, entro questo orientamento stilistico, la medesima sprezzatura avvertita nell’impostazione complessiva di canzoniere non troppo preciso: anche a livello testuale, insomma, si coglie una discrasia fra attenzione alle strutture metriche e irriverente libertà o eclettismo nelle scelte. In altri termini, più che di osservanza di forme canoniche riprese dal passato con gusto postmoderno (ovvi i rimandi all’esperienza di Valduga, di cui però mancano gli eccessi sensualistici e patetici), si dovrebbe parlare di una costante allusione a esse o, meglio ancora, di una montaliana capacità di coltivare spontaneamente i propri versi su un terreno precedentemente coltivato, agendo su una memoria in cui sono sedimentati i vari allestimenti testuali affioranti (mottetti, sonetti, madrigali ecc.). Lo stesso valga per le reminiscenze letterarie, magari spinte fino a «calchi apertamente esibiti» (l’annotazione è di Verdino), «come il celebre Spleen IV di Baudelaire in E quando scende senza luce un velo; altrove fanno capolino Arnaut, Dante, Eliot».

Fin dall’apertura del volume, l’uso insistito dell’imperativo («Lascialo intanto, non levarlo ancora, / trova altro che sappia quelle cose» ecc.) ha molteplici funzioni e valenze: è principio costruttivo dell’intero testo, protratto spasmodicamente in un’unica colata sintattica che si scioglierà solo nell’ultimo verso, pure ribattuto fino all’estenuazione ritmica e suggellato dalla rima di chiusura («direi che sia, che fosse, che sia stato: Amore», non sfugga nemmeno la maiuscola, già indice di una posa letteraria); è possibile richiamo a certi passaggi luziani (del resto la scena suggerita da Held – «metti carta ancora, / piccoli legni e foglie e ogni cosa, / che non si spenga il fuoco» – ha un celebre antecedente in Come tu vuoi, in Onore del vero); soprattutto rivela un desiderio di azione che nasce da un latente stato di immobilità, di stasi esistenziale, di dolore: siamo già nel corollario terapeutico implicito nell’atto della ricerca espressiva. E si noti che un analogo ricorso all’imperativo si riscontrerà anche altrove.

I tratti fondamentali della sezione, e della raccolta, sono già stati abbozzati: il riferimento a un interlocutore, inevitabilmente carico di echi montaliani, che apre lo spazio di una perdita dolorosa («quando apersi e ti vidi oltre la porta / che fui soltanto un desiderio appeso / come alla carta sta la mosca, morta»); il ricorso a configurazioni per accumulo («Confidenza mutante, intima notte») colmate da un’aggettivazione lussureggiante (un prelievo da altro capitolo: «La timorosa noia e ancora quella / allarmata pigrizia di sapere, / la trasparenza inutile dei segni / e la calce murata di ogni vista, / l’aria sviata»); la presenza di elementi stilizzati come il vento, la porta, l’ombra che pure concorrono a determinare l’aura della raccolta; il rapido passaggio a posture squisitamente manierate (persino nella maiuscola di ogni verso), che riattivano topoi lirici («Così ho saputo che la mia Signora / Vuole coprirmi con il suo mantello»); trapelano inoltre movenze che riportano a un gusto barocco per il calembour e l’ossimoro («la voglia di morire prende vita», «salire al fondo […] dentro la quieta atrocità del mondo») o ad accenti melodrammatici tipici dei libretti d’opera: «tra silenzi ingombri mi nascose / come da accese furie dolorose».

Se la seconda sezione assolve, nell’architettura del volume, a una funzione di intermezzo, dove si collezionano occasioni fluttuanti sempre sul tema della perdita (tema occultato con le varie epifanie paesaggistiche), la terza segna il momento in cui il dolore conduce alla pietrificazione dell’io: «ho solo simulacri nella mente, / perché dal cuore non arriva niente». Siamo al culmine della fenomenologia dell’amore perduto; ma non si tratta di un approdo definitivo. Anzi, in apertura della quarta sezione la citazione da Rilke (autore privilegiato dall’Held traduttore) prelude a un passaggio importante, che in effetti divide il canzoniere in due parti: «non è nostra quella morte che / ci prende infine solo perché in noi / nessuna giunge a compimento e allora / si leva un turbine, per tirarci via». Riappare in tutta la sua emblematicità la seconda persona su un confine, ancora montaliano, in cui pare compiersi il distacco: «ecco ti volti e quasi non respiri» (così termina il sonetto d’apertura, riproponendo in filigrana la figura di Euridice). Il dialogo con l’assente, sempre giocato su luoghi di confine (l’orizzonte, la riva) viene affrontato di petto: «rancore», «dolore», «rabbia», «paura» sono i termini ricorrenti con cui si elabora il lutto. «La memoria si nutre di distanza / come la riva appare al passeggero / intera, quanta è più la lontananza / ed alto il mare e più il terreno è nero», afferma una poesia. Il desiderio è, in positivo, quello di trovare la «ricetta», la «medicina», che porti a frutto la sofferenza; in negativo, quello di dare corso a una sparizione sentita come «imminente». Questa tensione allo scioglimento dei nodi interiori fa lievitare il tema amoroso su un piano ancora più alto, se possibile, e la comparsa di altri attanti (il padre, per esempio, o possibili antagonisti come il «ragazzo bellissimo» che si vorrebbe ricacciare «tra le sue ombre forti») complicano il teatro interiore e inviluppano il male, lo innestano nel groviglio del dolore universale (si veda Bosnia – scoppia la guerra). È il preludio a quella onirica confusione di figure e di moventi diversi che si attua nella penultima sezione: «Ma quell’uomo velato era una donna / Con un coltello e quel secondo velo / Sopra il mio letto non mi proteggeva / E il fagottino ricacciato indietro / Due braci rosse, un pigolio omicida». Il canzoniere d’amore si va trasfigurando in un congegno che porta a galla traumi profondi, familiari, esposti sullo sfondo di una religiosità un po’ enfatica, secentesca («Ora ti prego dio delle macerie»). Ma che cosa ha reso possibile questo mutamento d’oggetto? Direi l’abile tessitura simbolica e quella certa oscurità predisposta per difendere il magma dei contenuti. Va tenuto presente, del resto, che la matrice che sta alla base della poesia di Held è di natura più sonora che visiva, anche se ciò non significa che a tratti non si raggiungano nitidi e sempre montaliani correlativi oggettivi, come ad esempio «l’impronta che l’ala del falco / traccia nel sole all’angolo del muro» di un brano tra i più suggestivi. Sono proprio i minimi slittamenti musicali che agganciano o catalizzano, nel libero gioco associativo e mnemonico presupposto dalle strutture metriche, i contenuti profondi. Le forme sono una terapia cautelata.

Coerentemente con lo sviluppo ipotizzato, il capitolo conclusivo, composto da due sole poesie, pare addirittura dar vita a uno sgorgo: i riferimenti si fanno espliciti («al funerale del vecchio / che picchiava la madre / di mia madre»), si nominano persino direttamente le persone coinvolte («è lei che sta sotto la scorza, / Maria nel tronco, / dentro la linfa, Teresa») e il poeta non teme di accogliere inflessioni, perché no, pascoliane («vedi mamma ho paura», «vedi mamma non seppi fare niente»). Se solo così i fantasmi interiori hanno trovato espressione e libertà, il prezzo da pagare è un ripiegamento verso l’inettitudine («Ora non so nemmeno fare i versi»), prodromo all’assunzione di uno sguardo sulla realtà che si pone, rabonianamente, dal punto di vista della morte: «Fisso lo sguardo come, / la Morte guarda, immagino, una cosa».

Ma nel percorso si è pure intravisto il bagliore improvviso di un cielo o di uno sguardo: quell’azzurro irriverente che altro non è se non la vita stessa, che ci coglie sempre alle spalle, impreparati.

(da Poeti nel limbo)

 

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