Poeti contemporanei: Marco Guzzi
La poesia di Marco Guzzi si qualifica, fin dal suo esordio con Il Giorno, per la potenza visionaria e la contiguità con la ricerca teorica svolta tanto in campo filosofico quanto in campo sempre più prettamente spirituale. Progressivamente, poi, il tono di questo poeta è diventato perentorio, come suggerivano anche certi titoli (su tutti, quello della terza raccolta, Figure dell’ira e dell’indulgenza), ma come indicavano ancor più clamorosamente a livello testuale il ricorso sistematico agli imperativi e l’insistenza strutturale sul verbo essere. In questi versi è preponderante l’atto predicativo per eccellenza: Guzzi è un poeta assertivo, dichiaratamente profetico.
In pienezza di canto, l’autore supera qualsiasi impaccio letterario e offre al lettore libri ricchi di suggestioni, lussureggianti a livello espressivo, persino sfrontati e disinibiti nella virulenza creativa, che a ogni pagina sprigionano una nuova immagine, costruendo con generosità una vastissima galleria di figure. Persino l’apparato concettuale che questi testi presuppongono sembra essersi ormai sciolto pienamente. In altri termini: essa non è una trascrizione di concetti filosofici; semmai, sarà la forma di un nuovo modo di pensare e di mettersi in relazione con il mondo: annuncio, appunto, di una nuova umanità, del Giorno che faticosamente sta penetrando nella storia. Ciò è confermato dal progressivo abbandono di astrattezza e la ricerca metodica di correlativi oggettivi, di situazioni emblematiche («L’immagine è finita, prende corpo», affermava il poeta in Figure dell’ira e dell’indulgenza: il segno nella carne si fa «più preciso», le parole «Più reali»), pur restando viva nella scrittura poetica una dimensione speculativa. Del resto, la medesima struttura dei componimenti manifesta, nell’alternanza fra voce del soggetto e voce esterna in corsivo (rivelazione del divino), la dialettica interna della coscienza.
La connotazione fortemente materica del linguaggio, che non disdegna di inglobare, baudelaireanamente, anche vocaboli di bassa estrazione (baldracca, slingueggiando, cacca) o corporalmente precisi (vagina, giugulare), si dipana in uno stile sciolto, dove gli impasti fonici (qualche rima, assonanze e allitterazioni sempre più frequenti, ma soprattutto le già tipiche paronomasie che si agglutinano in sequenze particolarmente fitte), insieme ai periodi ridotti al minimo (talvolta a una sola parola), all’uso discreto ma distintivo dell’enjambement fra aggettivo e sostantivo (cui si può apparentare qualche caso di tmesi) e al frequente ricorso a riferimenti biblici e liturgici e a un vasto repertorio creaturale (animali, indicazioni astrali o corporee), si fondono con le immagini che ineriscono il personale bagaglio filosofico, in particolare alle riflessioni portate sulla scena dalla Voce che irrompe fuoricampo, capovolgendo il punto di vista lirico con un effetto di provocante paradossalità, di mistica clownerie. L’enfasi è in effetti uno dei primi dati caratteristici di questa poesia.
Qual è la ragione di tale esuberanza, di tale smodatezza vaticinante così in contrasto con il gusto contemporaneo? Andrà elegantemente circoscritta nell’ore rotundo del poeta invasato oppure ci parla, inequivocabilmente, di una traboccante ricchezza di significato? L’enfasi delle raccolte di Guzzi va commisurata alla propria ragion d’essere: la scrittura è vissuta pienamente come evento, esperienza spirituale, tanto che l’autore resta il primo a stupirsi del proprio eloquio. Questa esuberanza affonda le radici in una gioia nascosta ma trasbordante e ciò rassicura il lettore, di fronte alle questioni che vengono sollevate e che, necessariamente, lo provocano, lasciandolo spesso interdetto e titubante. Come per ogni mistico, la credibilità di ciò che afferma si verifica nel corpo. Ogni mistico porta addosso i segni della verità e in virtù di essi andrà ascoltato.
Questo è giusto il senso dell’esibizione del corpo e della sua sfigurazione in questi versi. Il dire del poeta è tanto disinibito da parere sfrontato, volgare («Non c’è niente di puro sulla terra / Se non il raggio di una stella in fondo al culo / Tumefatto dei tuoi giorni»; «Spermatico è il seme trattenuto. / E la parola che non dici / Suona più in alto»). I suoi punti di riferimento sono le grandi voci della tradizione europea, che hanno inaugurato e scandito le tappe della modernità e vengono letti come paradigmi di riferimento per l’evoluzione dell’essere umano, giunto a una nuova soglia esistenziale. Arthur Rimbaud, Friedrich Hölderlin, Rainer Maria Rilke, Antonin Artaud, Georg Trakl, Dino Campana, Paul Celan, Dylan Thomas, René Char, Yves Bonnefoy, Mario Luzi sono gli interpreti della crisi della coscienza e della nuova dimensione che essa deve assumere per sancire la nuova alleanza fra l’uomo e il cosmo. I corrispettivi di questa tradizione poetica sono, in filosofia, Nietzsche e Heidegger, non a caso due pensatori fuori dai generi consueti di categorizzazione. Questi autori, innestati nella tradizione mistica europea, determinano la via, ancora lungi dall’essere stata compresa e assimilata, che si è aperta in seno alla cultura occidentale per attraversare le notti del nichilismo.
Per Guzzi, dunque, la poesia è il segno dell’evoluzione dell’individuo o, meglio, l’essere umano è chiamato a evolvere poeticamente. I libri che va componendo sono soglie di attraversamento, passaggi antropologici. Sono marchiati a fuoco dalla sofferenza e insieme dalla gioia della trasformazione, danno forma alle crisi della storia umana e cercano di testimoniarne la direzione salvifica. Mutare mente, Notti passate e Terapie sono la sigle significative di alcune sezioni di Preparativi alla vita terrena. Nel corpo tumefatto dei giorni, le tracce minime di speranza vengono afferrate con veemenza, per un atto di fede che si rinnova e si rafforza nel dolore: «Io non sono una scatola di carne / Andata a male. / Nel mio gene grida una promessa».
Anche nell’opera più recente, dunque, il processo di decantazione della parola poetica di Guzzi continua, lascia sedimentare l’astrattezza in immagini maggiormente nitide ed emblematiche. Non sono, cioè, mere figure mentali quelle cui si appella il poeta, bensì nomi, seppure inediti o altisonanti, delle esperienze comuni e degli avvenimenti che ci riguardano. Persino la condizione socio-politica entra nello sguardo che indaga la frattura antropologica in cui è immerso l’individuo, lo Spaccato dell’epoca, per riferirci a un titolo sott’occhio, che denuncia la volontà di interpretare la storia, di illuminare anche il vissuto quotidiano.
Una simile poesia è inchiodata al dilemma radicale che essa stessa pone, si può quindi liquidare come delirio oppure prendere in parola: non ci sono vie di mezzo. È chiara e determinata, non conosce sfumature diplomatiche. È scandalosa e autoritaria, nella sua scommessa profetica. Preparativi alla vita terrena suona non a caso come titolo di congedo nei confronti della poesia stessa, vissuta quindi con umiltà come dono per educarci alla vita e non come strumento retorico.
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