Poeti contemporanei: Davide Rondoni
Il bar del tempo, prima uscita di Davide Rondoni presso un editore di prestigio, è raccolta che ci consegna la fisionomia di un poeta considerato fra i più attivi della sua generazione, che si era proposto attraverso il lavoro di «clanDestino», rivista di cui è direttore, e diverse sillogi precedenti, in qualche modo segnate da una perenne provvisorietà che si tramutava in promessa reiterata, in costante rilancio. D’altronde, le citazioni che suggellano quel libro (si accostano Vasco Rossi, Luigi Giussani e Flannery O’Connor!) stigmatizzano ancora un’energia impura che diventa reagente essenziale del fare letterario, fino a sfondarlo, a inserirlo in questioni altre, senza isolarlo insomma dal tempo e dalle sue problematiche.
Non c’è dunque margine di autosufficienza nel suo gesto poetico, che si dichiara sempre dedicato, sempre rivolto a una storia, a un contatto umano da catturare nel canto profondo che si solleva dietro le immagini fugaci del divenire e ci parla di un amore più pieno, di qualcosa di inaudito che insegna, con dolore, «una felicità dura, di più generazioni». Transeunte ed eterno si muovono dietro la vetrina, verrebbe da dire, di questo libro: un bar in cui possiamo capitare, dove certamente vige, sotterranea, la speranza di un incontro, anche per il viaggiatore morso da irrequietudini nascoste che si trova a entrare per caso, senza una parola da masticare insieme ad amici: si potrà pur sempre stare con i baristi «davanti ai tavolini vuoti / e alle sedie disordinate / a veder che battono i lembi alle tovaglie / e a scambiarsi, tranquilli, due cazzate». E di viaggi ci parla questo libro (viaggi che ci consegnano i ritratti di un’Italia che sembra un’unica, multiforme provincia, anche quando si inaugura il giorno sui viali di Milano) e di ritorni in famiglia, che segnano poi altri viaggi nel tempo, lungo il crocevia delle generazioni e i legami di sangue e d’amore (non ci sono solo le apprezzate poesie per il figlio, ma i ritratti di nonni e di parenti, di fratelli e di amici, degli amori incompiuti e dei ragazzi che «perdono il giorno» davanti ai video della sala giochi, dei vecchi che si accudiscono da soli o delle donne che «fanno i mestieri», delle commesse, dei camerieri, e anche dei poeti di quest’epoca «postpasoliniana»).
Un senso così forte e determinante di appartenenza si riscontrava già nella raccolta d’esordio, La frontiera delle ginestre, che poeticamente è addirittura il libro più prossimo al Bar del tempo (in cui confluiscono una ventina di testi delle precedenti raccolte). Qui, infatti, si rinvengono già le coordinate da cui la poesia di Rondoni non si è allontanata: anzitutto l’impronta combattiva di una religiosità ungarettianamente essenziale (tanto da poter invocare in esordio: «‘Invadimi, signore!’ // Poi fare versi, e in abbondanza») ma pronta anche a divenire preghiera esplicita, a compenetrare le forme rituali in una sacra rappresentazione, con una rivisitazione quasi jacoponiana di scene evangeliche che personalizza un culto “popolare”, che tale vuol rimanere (scadendo altrimenti la fede a infingimento, a figura mentale devitalizzata e consolante): si vedano per questo le stazioni poetiche incluse ne La resurrezione. Ma si avverte anche l’andamento fluente della poesia, che mal sopporta costrizioni estetiche e che preferisce farle liberamente riaffiorare come detriti: ecco allora qualche movenza strofica, oppure un rapinoso ma non arduo analogismo (in genere significativamente legato al corpo: «nelle nubi del volto», e anzitutto alle mani: «dalla rosa delle mie dita», «la gemma della mani»), qualche ammicco allitterativo («Il mare, madre amara»), settenari, novenari e endecasillabi, parallelismi e reduplicatio luziani («In ogni velo di pianto / in ogni inizio di riso», «E scende, / scende come una lama», «in una notte come questa, / in una notte come questa l’anima mia / anima tua / […] il mio passo / il tuo passo»), lessemi accolti quasi per “sporcare” con la letteratura («incanutire», «senza simiglia») un discorso che sa invece di statuirsi su una base ontologica più che estetica. Ed ecco che comincia anche a organizzarsi il coro delle figure familiari («Mia sorella è di là, / ascolta musica»), degli amici, degli incontri occasionali cui generalmente si allude nelle dediche indiziarie o estese, le prime immagini topiche («A cena, sulla tavola quadrettata»). La varietà delle soluzioni è evidente, sia per quanto riguarda il lessico, generalmente improntato a un linguaggio diretto che filtra i vocaboli attinenti al religioso e al letterario senza tecnicismi, sia per quanto riguarda la strutturazione dei testi. Naturalmente, trattandosi di un’opera prima, non mancano, soprattutto su quest’ultimo versante, tracimazioni prosastiche e calchi evidenti, anzitutto luziani (si pensi alle ultime due sequenze della poesia segnata come «Lettera a E.», o a giri sintattici quasi ipnotizzati dall’avverbio in arrivo, avvitati con riprese e deissi intorno al “mantra” pronominale: «Lei / ferita in ogni parte / stupita di quel dolore / in quello si cerca, si cerca disperatamente», e così via fino ai testi interrogativi e corsivati con funzione di ripresa musicale). L’ansia testimoniale di questa poesia, tendente agostinianamente alla confessione, segna il limite congenito di un libro ancora tutto preso in tale urgenza (si veda la poesia «In morte di Jerzy Popieluszko»), che ci consegna un io non invadente, non eroico, eppure immolato con pienezza sulla pagina («Sono veramente poco, / meno del tuo silenzio», «Io penso al mio destino, lo decoro»), un “io” inevitabile per condurre un discorso personale, non ambiguo.
L’apprentissage letterario si acuisce invece con il successivo O les invalides, libro-fucina che già per l’indicazione del sottotitolo di opera «in minore» rinvia a quella laboriosità immanente, tipica del poeta. Vi si scorge però anche un’indicazione musicale, che si riverbera poi nelle partizioni interne (con i vari preludi, intermezzi e riprese) che segnala in sé stessa nuove letture improntanti: soprattutto Caproni («Morte plenaria», «straziata allegria»), anche per l’uso delle parentetiche a creare diversi livelli nel testo, e delle rime; e Zanzotto («luce spigosa», addirittura citato come esemplare da Agosti nell’introduzione alle sue Poesie, «bambi» ecc.), con il quale del resto interloquisce una poesia e al quale si deve, in comproprietà con Testori, il decostruzionismo verbale con annessi balbettii reinventivi del tipo: «Null’altro (null’amen) […] disorla / decade de-canta […] in tutti i retro / (retrò)» «Espia (espia /expo)» «dentro \ (intus)» «Espia. E-spira. Re \ in arco, / l’amore di / (chi?) di / (cos’è) delle inimmaginabili / […] Espia (espia expò)» ecc., fino alla vertiginosa penultima poesia: «Strido // Stri // Stri \ Stringhe // Stringimi // La puissance, la concu […]». Parallelamente si fa più discreto il lascito luziano («Vita, dice, che fulmina / in altra vita», «a che immagine, Dio, / a che oscura somiglianza…»), che tuttavia diventa lo sfondo naturale di questi versi ora intenti a trovare soluzioni più individuali, anche per mezzo di un confronto-scontro con altri codici (qui la traduzione impossibile e necessaria di un canto gregoriano, nei libri successivi un fugace e intenso ricorso al dialetto e soprattutto un corpo a corpo con la preghiera e con formule liturgiche canoniche). In generale, si potrà dire che l’autore stia cercando non di assimilare la tradizione, di sterilizzarla all’interno del proprio dettato, ma di impastarsi con essa, come dimostrano i sempre più pesanti echi altrui (anche quando la citazione è maldestramente doppia: «che vita tanti io non credevo / n’avesse sfatti», ammaliata dal Dante di Eliot) e soprattutto il contrasto lessicale cercato con l’aulico e l’iper-letterario: «capelvenere», «negra» (Carducci!), «indovarsi» (dantismo). Insomma, la letteratura è trascinata a livello dell’esperienza diretta: il poeta vi attinge come può attingere alla preghiera, al linguaggio comune, a tutti gli altri ambiti attraversati: ne fa un mestiere come altri, esorcizzandola (faticosamente a dire il vero, se i risultati concreti si vedranno solo in seguito). Ma è a un livello più immediato e quasi visivo che l’officina letteraria si rivela, se i testi si muovono e si torcono sulla pagina, il verso si dispiega lungo più scoscendimenti, pur senza frantumarsi e scivolare definitivamente nel gorgo della pagina bianca. Cominciano, anzi, quei tipici scatti, spesso invocativi, che reimmettono in una dimensione di canto che elimina ogni tentazione di afasia: «dov’è, dove espia \ (dove sta filando via –)», «O caput cruentatum \ (o caput) / a modo verberatum». Figure predilette sono i reietti, i malati, i vinti della società, attraverso i quali, con i quali, indagare nell’assurdo («e in quel vuoto / l’urlante invisibile Dio / è un giglio spento, un pallido / fuoco della mente») per scovarvi la presenza della grazia: «Cosa io di più, di lui / che chiuso in branda / nel sudore si ribagna / Cosa io \ di più, \ di lui / che ha lo sbaglio \ (che ha lo sbaglio) / in volto / e la carne cagna… \ Ora che la luce / è senza grazia, luce ferro, \ scherno, \ buca // a che immagine, Dio, / a che oscura somiglianza…».
Se una decisa controspinta letteraria serve a questa poesia per evitare una troppo forte incrinatura pietistica, O les invalides tocca vertici di sperimentazione mai più raggiunti. Piuttosto, il successivo A rialzare i capi pioventi, silloge questa sì davvero minuta, si dispone sul versante, se non di una maggiore semplicità, di una incipiente cantabilità (interna, mormorante, ma non priva di slanci). Eppure, restano affidate a queste paginette, fra gli altri, due testi oltremodo significativi nella già evidenziata prospettiva di confronto, imitazione e reinvenzione di codici linguistici e tradizionali: si allude alla rapida incursione nel dialetto con la poesia (in alba) e soprattutto al Trittico centrale, che rivisita nelle sue due prime pale l’evento dell’Annunciazione e della Concezione, per esplodere nella conclusiva preghiera dell’Ave Maria, in cui si introduce il sottolivello delle mormorazioni poetiche interiori, le quali anzi compenetrano il testo creando rilanci, riprese, pause riflessive, in un’orchestrazione di buon effetto: «Ave (niente –) \\ Maria (nome di niente, di te, / nome d’aria) […] Santa Maria, Madre di Dio \ (o picco, o ripresa in alto / colpo di tutta l’orchestra […]». Siamo forse nei luoghi più audaci del poetare di Rondoni, dove gli ingorghi e le invenzioni lessicali («Maria […] nome d’aria», «il frutto, \ il frumento / il vento fruttificante», altrove, testorianamente: «marcristo, grigiomare») e gli stessi slegamenti metrici sono messi a disposizione di una voce a tratti rude, ma che intona di volta in volta un inno, bisbiglia un salmo, riecheggia una preghiera con la dichiarata volontà di «rialzare i capi pioventi», di lenire la disperazione del vivere.
Caratteristiche, queste, mantenute anche nel volume che riprende quello appena ricordato e che insiste sulla tensione escatologica adottando il titolo Nel tempo delle cose cieche. Bastino impennate del tipo: «Avvento – avvento avvento!», all’interno di una tonalità melodicamente più soffusa e avvolgente («Anima mia, mio furtivo bene…», «Che vuoi dirmi così \ mentre fili di pioggia…» «Perché non parlano \ le colline…», «Fiore \ o compagna / della mia pena / della buità di me…», «Mio gran padre…», citando solo alcuni attacchi emblematici) per ribadire questa nuova cantabilità lirica che va sciogliendo i grumi letterari più ingombranti, fino a riscoprire il valore eufonico della rima e accenti di compiuta, trepidante tenerezza: «Io son di quelli che amano molto / e forse male \ e forse niente – – \ e tu Ale / […] Piccola scimmia / ed eterna sposa / che rovesci la mia ricchezza triste \ in allegria…», ma senza l’espressionismo di O les invalides e A rialzare i capi pioventi. A questo punto, anzi, l’autore sembra sterzare e puntare lo sguardo verso nuove figure, quasi cercando con un taglio sociologico le icone di una religiosità più vicina all’esperienza contemporanea: ecco allora che «I due autostoppisti più tristi del mondo» si incammino idealmente verso una nuova Emmaus, oppure ecco che il poeta si vede ironicamente a fronteggiare le proprie muse («Desiderai di voi i baci un tempo…»), ora preoccupato a volgere lo sguardo sull’impoetica realtà: «A Vienna sotto gli stucchi / corrono ragazzine dai capelli colorati / tengono pasticche sotto la lingua, / probabilmente anche a Milano \ a Pechino è così: / il contemporaneo è assoluto»; ed ecco ancora il ménage della casalinga, altre epifanie di reietti, ricordi di amici e di amori perduti, la «rugosa realtà» dei giorni e il tepore della famiglia, ecc., il tutto condito da un più cosciente, risentito rifiuto della letteratura, intesa come vizio, valore in sé: «eppure le pasticche / la letteratura / non le tieni più / tra i leggeri medicamenti». Forse una svolta impercettibile si è prodotta nei passaggi scanditi da questi libri e dal loro lavorio costante sulla parola.
In questo procedere magmatico, fra poesie riprese di libro in libro, scomposizioni e riaggregrazioni nelle sequenze dei testi, ideali riscritture, qualche attingimento a sintagmi precedentemente coniati («amore sciabolante» e «Qualcosa tra il furto / e l’innamoramento», per esempio, compaiono in composizioni diverse), nuovi echi letterari (le madri che di fronte ai poeti «si chiudono le labbra con il pugno \ maledicono» come potrebbero non alludere al Baudelaire che nel frattempo Rondoni andava traducendo?), entro questo procedere, va forse rintracciato il germe dell’eccesso che connota Il bar del tempo, come se l’elemento grezzo di questa poesia divenisse infine sapientemente coltivato, fino a tramutarsi in poetica, in etichetta per confezionare un libro come farebbe un sagace narratore (e Rondoni è anche autore di un godibile libro di racconti, I santi scemi, che ha come personaggi gli individui che compongono l’ideale popolo del bar, una serie di figure che si fanno pretesto per squarci riflessivi letterariamente apprezzabili). L’io si accomoda nella cornice di un ritratto dai connotati vagamente maudits, il taglio sociologico dello sguardo lirico si fa vizioso. E l’eccesso cui si allude non è soltanto di contenuto, perché si preme troppo pure sul pedale dell’abbandono formale (ne sarà un segno, per quanto riguarda talune poesie già edite, anche il ritorno alla lezione più vecchia), ma soprattutto a stancare è il passo decisamente prosastico di certe sequenze, la nonchalance che sottolinea l’apparizione della rima più facile e cercata nei circuiti prediletti, una fluenza stagnante che investe l’antiletterarietà della posa assunta («Ai moralisti ho sempre preferito / i santi, i cantanti \ e i baristi»).
Se tuttavia Il bar tempo riusciva a contenere complessivamente questi difetti, il successivo Avrebbe amato chiunque suscita l’impressione di un volume confezionato davvero frettolosamente, che dà pienamente credito a una scrittura che si vorrebbe pasoliniana, immischiata con la storia e la cronaca, umanamente sovraccarica, tesa insomma a redimere il male di vivere mentre punta il dito contro l’ipocrisia e l’ottusità del tempo che pure si attraversa, e che risulta invece solo diaristica e sciatta: mera esecuzione di una poetica troppo sicura. Addirittura imbarazzante è la presenza di molti testi che, prendendo le mosse da un tragico fatto di cronaca (un pensionato che uccide il figlio malato, una madre che getta dall’appartamento in fiamme il proprio bambino nel tentativo disperato di salvarlo, una tredicenne suicida ecc.), lo poetizzano in modo assai ingenuo, dando la sensazione di trovarsi, al cospetto della noticina informativa che esibisce l’argomento grave, a una parodia del poeta, anima pura e sensibile che attraverso il suo canto può consolare il mondo e ripararlo, anzi propriamente redimerlo: «Il ballerino voleva fare, era paranoico / nella cura al suo corpo. \ Ma la sclèrosi / lo allacciò in modo strano all’aria / […] / Conosco quei due colpi – / conosco l’amore che si compie / dalla parte sbagliata»; «Cosa c’era dove hai lanciato / il tuo bambino \ il vuoto / del quarto piano […] \ E mentre lui cadeva / tu bruciavi maternamente»; «Irene s’è uccisa a tredici / anni. Ha scelto / per il suo volo di morire / lo stesso giorno di Cobain. \ Sua madre mi dice: / proprio ora, e io penso: stava / per fiorire. / […] / Pagherete per Irene / pagherete caro, dico non so bene / a quale dei fantasmi onnipresenti, / video-petulanti, ai maestri quasi tutti / orrendi / nella retorica che si son cuciti / di artisti o presidenti».
Non mancano, sia chiaro, versi ricchi di pathos e felicemente ispirati, soprattutto fra i testi privati, che raccontano magari gli affetti familiari (così come già nel Bar del tempo), ma prevale complessivamente l’inclinatura patetica e pietistica e l’intento predicatorio: «In questa età del feeling / gli scrittori più noti arrivano / alle stesse conclusioni dei pubblicitari, / e tutto è aperto, i musei, i pub e le chiese, / e la domenica le aule parlamentari / per la visita confusa di gente che dice / a tutto è carino! ma non sa più / che cosa è: domandare». Basta una spruzzatina di rime per riscattare questi versi dalle loro stesse affermazioni e dalla prosa? La foga con cui il poeta nomina esperienze e oggetti per abbracciare una realtà povera e sofferta e per calarsi nella vita moderna conferma l’aspirazione a eseguire un progetto troppo chiaro a sé stesso, in cui pesa l’intento di raccontare il mondo contemporaneo, allargando anche lo sguardo dal nostro paese ad altri contesti internazionali: ecco allora una galleria di precise vie di città percorse di notte, con i loro cessi pubblici, i distributori automatici di sigarette, le edicole con intorno «solo arabi a trafficare / con le bottiglie in mano» (Fai via Massarenti, ma a piedi), ecco i rituali di una vita spesa tra viaggi e soste provvisorie: «Io ho bevuto il caffè / i sigari dal fumo acre li ho comprati. / Uscendo e puntando sull’auto / il comando elettronico che l’apre / ho avuto paura di non vederli più / quell’uomo, il suo giornale», e così via. Su un tessuto sintattico piuttosto trasandato, le rime, facili e ricorrenti, sono un ammicco che irretisce, una patina aggiunta per poetizzare e non uno strumento di scavo conoscitivo e approfondimento linguistico: anche «l’io che parla raccontando o meditando, talvolta come ai margini di una scena», secondo l’annotazione di Ezio Raimondi nel risvolto di copertina, in fondo conferma il procedere di una scrittura guidata da una naturalezza che si vorrebbe luziana e pasoliniana e invece risulta, suo malgrado, soltanto presuntuosa.
(da Poeti nel limbo)
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