Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

Poeti contemporanei: Stefano Raimondi

Nella poesia comunicativa e vibrante di Stefano Raimondi, che si è compiutamente rivelata con La città dell’orto, c’è una delicatezza di fondo, un tratto quasi adolescenziale di trepidazione dissimulata, che pare sempre sul punto di trapassare in chiaro accento emotivo e che invece resta raccolta, concentrata, nel dettato. A trattenere tale vibrazione è la coerenza figurativa cercata e raggiunta, più che nella rappresentazione di Milano, la città del titolo (perfettamente descritta nella prefazione di Umberto Fiori, che insieme a Giancarlo Majorino e a Milo De Angelis, prefatori in altra sede dei suoi versi, e a Franco Loi, primo interlocutore, compone l’intreccio di relazioni ideale all’origine della poesia di Raimondi e della sua particolare “milanesità”), attraverso la figura paterna nelle prime sezioni e di una particolare strategia compositiva nel terzo e più cospicuo capitolo del volume.

Non che la città di Milano non sia indagata con vivezza di sguardo. Ben lungi dal rimanere sfondo inerte, essa si mostra con un volto persino originale, come ancora rivela la sigla scelta in funzione di titolo. La città ci viene incontro con il suo segreto, con il silenzio di corti e di giardini, mostrandoci il profilo più intimo: indice della veridicità del rapporto che il poeta instaura con il luogo nel quale forma il suo timbro espressivo. Milano non è qui un emblema consunto, uno stereotipo, passivamente riconosciuto a partire dalla memoria poetica di una tradizione entro cui pure Raimondi, studioso per altro di Sereni, si inserisce dialetticamente.

Tuttavia, gli elementi figurativi e strutturali che conferiscono coerenza al suo immaginario poetico e che trattengono l’impulso lirico effusivo sono altri. Anzitutto il padre, si diceva, che nella malattia e nella morte concentra su di sé ogni surplus simbolico implicito. E sovviene alla memoria il fulgido esempio della poesia di Jaccottet, alla sua sincerità biografica tersa e mai invadente, capace di offrirsi a riprova della necessità espressiva, in funzione di legittimazione della scrittura per via emotiva e non solo per competenza letteraria. Il poeta si orienta con devozione verso lo schermo dell’ombra paterna, proiettandovi i temi che gli stanno a cuore, selezionandoli spontaneamente in forza dell’intensità del gesto compiuto, del punto di fuga scelto per organizzare le pulsioni poetiche. È l’evento biografico a dettare le scelte espressive, è la tensione testimoniale a contenere la corrente lirica nel solco che gli garantirà resistenza ed efficacia anche letteraria.

L’altra strategia adottata ha valenza propriamente strutturale. Si tratta del ricorso sistematico a un’altra voce, dislocata rispetto al testo sotto specie di citazione. Questa sorta di didascalia (trascritta in corpo minore) assume svariate funzioni: anzitutto, si tratta di una vera e propria seconda voce, che mette in moto una dinamica dialogica interna all’opera e permette di distanziare l’io lirico attribuendogli l’autonomia del personaggio; spesso tuttavia la valenza assolta da questi versi di lancio e di appoggio è quella di compattare narrativamente le sequenze, evitando una difficile contaminazione: se la necessità di chiarire l’occasione e di attivare la trama è demandata a questa introduzione, la poesia vera e propria può concentrarsi intorno al movente emotivo (si pensi alla propensione lombarda per la narrazione franta ed ellittica); infine, il sovrapporsi di tali piani testuali amplifica e complica le architetture dei significati, annoda immagini e toni, cerca il contrappunto simbolico. La divaricazione della poesia sui due livelli le conferisce, anche fisicamente, profondità, palesa lo spazio teatrale della pagina, allenta la tensione immaginifica (i lampeggiamenti deangelisiani rappresentati da sentenze, clausole, condensazioni semantiche conchiuse e apodittiche che diventano nello stesso istante lievi forzature logiche) e si sforza di mantenere teso l’equilibrio tra razionale e assurdo, tra delicatezza biografica e memorabilità tragica.

Resta da verificare nelle future apparizioni se, oltre ai due elementi strutturanti qui delineati, il poeta avrà saputo trovare una voce salda e riconoscibile in sé stessa, senza l’autorità di una citazione o l’appoggio di una voce fuori campo per consolidare una pronuncia altrimenti troppo tersa e svanente.

(da Poeti nel limbo)

 

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