Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

Poeti contemporanei: Massimo Morasso

I tre volumetti con cui Morasso ha avviato la sua produzione poetica compongono una trilogia (La leggenda della primavera) alquanto mossa e articolata: si stenterebbe quasi a credere all’esistenza di un solo autore per le raccolte in questione. Eppure, dal Ritmo del ritorno alle Storie dell’aria, si avverte un movimento che non è solo di Distacco, di crescita lineare, di abbandono di posizioni precedenti: c’è tutta una trama a suggerire piuttosto un movimento a spirale, che si allarga seguendo le spinte centrifughe di una poesia radicata nell’ascolto dell’altro, ferita originariamente dall’esperienza delle cose piuttosto che da una concupiscente autoreferenza.

Eppure, risulta altresì evidente quanto la poesia di Morasso sia dotta: ecco allora che alle forze centrifughe si accompagnano altre spinte, centripete, che obbligano il testo a una crescita verticale (d’altronde, prosa e versi si alternano realmente nella scrittura dell’autore genovese). Da una parte, insomma, cercando di tradurre in termini simbolici il discorso, assistiamo all’epifania della natura, del mondo, dell’oggettività, che chiedono allo sguardo una profondità orizzontale e narrativa; dall’altra ecco le più classiche figure elaborate dalla poesia moderna (il ritorno, il distacco) a consegnarci un sapore sapienziale e finanche filosofico. Non sappiamo se, prima o poi, l’autore si troverà a dover scindere questo sistema di forze e trovare un equilibrio lungo un’unica traiettoria, oppure se la leggenda continuerà a tentare la storia con una deriva sempre incerta e sempre necessaria: c’è un tempo, per la parola poetica, per restare ancorata alla riva dell’epoca come una sentinella, ma c’è un tempo in cui è necessario salpare e tentare il mare aperto.

Non paia gratuita quest’ultima immagine: nella geografia sottesa ai versi di Morasso, peraltro già molto varia (Quaderno irlandese e Intermezzo genovese sono due dei capitoli che compongono Nel ritmo del ritorno, che allarga lo sguardo, fra l’altro, anche alla Germania di Hölderlin; ma nelle raccolte seguenti troveremo molti altri paesaggi, francesi, iberici, slavi…), occupa un posto strategico il tratto estremo di terra che espone l’Europa verso occidente; si allude a quel Portogallo naturalmente proiettato verso l’Atlantico che viene nominato (quasi si trattasse per eccellenza del luogo in cui la dolorante materia del ricordo chiede di venir bruciata: «Andrea non basta averli, i ricordi. / Bisogna avere la forza di perderli / per non tradirli»), nell’opera mediana e cruciale della trilogia, il Distacco, appunto, dove si legge in nota che il poemetto «è stato letto in pubblico per la prima volta il primo gennaio 1997 a pochi metri di distanza dal Monumento alle Scoperte eretto accanto al molo di Belém a Lisbona». Ma che cos’è questo distacco? Una figura solo mentale, di appoggio, una sorta di maschera dell’indicibile? No, il poeta è chiaro in merito: «La poesia del distacco», scrive nell’introito «verrebbe da pensarla / come mossa e percorsa / da un impulso teologico»; ma si veda anche poco oltre: «Il distacco a guardar bene è la ragione / e la ragione è la fede / nelle ragioni dell’invisibile». Ecco, la motivazione intima che apre la voce poetica all’esperienza (alla sperimentazione stilistica, al divenire) è il sentimento di un salto necessario, di un affidamento a potenze non controllabili dalla volontà di potenza dell’io. Deriva mistica? Non c’è giudizio possibile, al di fuori dell’avvenimento della poesia.

Dunque, qual è la fenomenologia finora tracciata dai versi di Morasso? Nel ritmo del ritorno ci consegna paesaggi naturali osservati quasi con accanimento scientifico, in cui tuttavia si percepisce il pulsare, minerale, della storia e della morte; il soggetto è occultato con cura e la presenza umana più emblematica (toccando un tema peraltro già riscontrato nell’opera di Pusterla o, per rimanere a un altro poeta legato alla Liguria, sebbene poeticamente più distante, in Mussapi) è data dai resti di un corpo, sepolto a Pegli nell’era Paleolitica. Insomma, l’autore qui ci offre quadri naturali (al limite, nature morte) minacciati dall’ombra umana («il viaggiatore», «l’interprete», «l’appartato», «l’osservatore»), relegata ai margini del campo visivo. Lo stile ricorda la poesia di Neri, ma anche il procedere per piccoli ritagli (lasciati galleggiare su un vasto ma perduto sfondo) della poesia di Cucchi; la tensione allegorica sembra contrastare intenzionalmente ogni abbandono analogico, come se si trattasse del varco prediletto per la riemersione di un io titanico, pronto a fagocitare il creato.

Distacco, invece, è un poemetto di diciotto brani più uno introduttivo, «scritto in sei giorni febbrili», e rappresenta, a tutti gli effetti, uno sgorgo. Qui il soggetto accetta di esporsi, di diventare il teatro per la rappresentazione dei processi che sottraggono la voce poetante al controllo dell’io, paradossalmente più pressante laddove giostrava la regia occulta della visione. Ora il poeta si lascia affascinare dalle parole (con qualche rischio, si diceva, se delle figure dell’origine, del distacco ecc. si abusa alquanto) e si lascia guidare da esse: «Interrogarmi / e ricordare, e ricordando / affidarmi alle parole, / a un gesto estremo di pietà». Non è più possibile una poesia ingenua: bisogna accettare che lo sguardo rifletta su di sé per acquistare coscienza, prima che si riapra alla contemplazione, alla visione del mondo. Il tono è insieme sostenuto e colloquiale (con necessaria alternanza di risultati), la vertigine simbolica è temperata dalla predominanza della similitudine («come il senso di un’ora felice», «com’è il Po dalle parti di Pavia», recitano due chiuse contigue, fra le più emozionanti della raccolta, che danno proprio l’impressione, per chi aveva seguito la pronuncia assai sorvegliata del libro precedente, di uno slargo, di un abbandono alle immagini). Compare anche qualche discreta rima, a sostenere un verso che fluisce libero e improvviso, raccogliendo anche parole direttamente rivolte a interlocutori reali (il poeta Mario Benedetti, per esempio) o qualche detrito che la stesura rapida e febbrile dell’operetta comporta (passaggi un po’ frusti come: «Avessi potuto scegliere / tra tutte le malattie / avrei voluto vivere, / essere disertato / come i più dalle parole», che in qualche modo ci ricordano gli accenti più crepuscolari di Mediterraneo, la sequenza montaliana che si può additare come modello, forse, anche di questi versi: si veda anche il ricorso al “tu” di appoggio e gli scatti apodittici, gnomici). E ci fermiamo qui, perché le citazioni si moltiplicherebbero di fronte a un testo così solidale e aperto, fluente e coraggioso.

Se inizialmente si proponeva nel campo della poesia la natura appena turbata dall’uomo e, poi, si è avvertito lo snodo della coscienza poetica che tornava a esporre il soggetto in qualità di necessario testimone dell’evento della parola, Le storie dell’aria risulta un libro teso verso una dimensione corale, nel desiderio forse di restituire al lettore un’epica di umili vicende umane («Sono ancora qui per ammonirci, il miracolo / dopotutto se c’è è qui, forse è riconoscere / che sono uomini anche questi, / sono persone vive e non spettri»). Siamo nelle zone più prossime alla prosa, per quanto sempre elegante e sorvegliata. Viene in mente, come paragone, la produzione luziana del dopoguerra («Che io possa non dimenticarti mai / tra me e me ruminando quasi balbetto / fissandoti negli occhi mentre insisti / a dare una figura al mio destino / sulle pieghe della mano ancora aperta»); ma qui mancano un ambiente e una vicenda univoca. La storia personale prende leggermente il sopravvento sulla dimensione corale della quale pur si fa carico, mentre lo sfondo, invece della campagna toscana (peraltro richiamata in qualche circostanza), è dato da un orizzonte più vasto, e si dica pure europeo.

(da Poeti nel limbo)

 

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