La mia havruta poetica con Brullo

A suo modo, la poesia è una forma di studio del mondo. E ogni volta si riparte da capo: questa è la sua povertà e la sua grandezza.

Se la pensate anche voi così, prendete lezioni sull’abbecedario che ha appena scritto il gran maestro di poesia Davide Brullo.

Non mi nascondo dietro a un dito: Davide è più di un caro amico. Nel parlarvi di lui e di quanto va scrivendo, non mi interessa minimamente adottare una prospettiva oggettiva e valutante (“critica”). L’ho già spiegato. Adesso però rincaro la dose e ve lo confesso, è lui il mio chaver, è con lui che ho formato idealmente una ḥavruta di poesia. Davide è il mio fratello e insieme il mio avversario poetico. Per certi versi – per molti versi – è agli antipodi rispetto alle forme in cui si cristallizzano le mie visioni: per questo ne ho un viscerale bisogno. Percepisco infatti sempre, e nitidamente, l’urgenza assoluta del suo dire. Con lui dimostro ogni curvatura dello spazio: lavoriamo in direzioni talvolta persino opposte (lui apparentemente fluviale, esondante, sia nel singolo testo sia nella quantità di opere; io così apparentemente parco, concentrato) eppure si tratta di direzioni sintonizzate su affini, strategiche frequenze (la tensione poematica, il coraggio di affrontare le vertigini del senso senza trucchetti letterari e ammortizzatori…). Per questo, muovendomi sul versante opposto lungo i medesimi meridiani e paralleli, finisco sempre, stupito e stupido, per imbattermi nel suo lavoro. E le coordinate saltano. E accade di buscar el levante por el poniente o, come ora, di ritrovarsi improvvisamente nell’Antartico mentre si puntava l’Artico. Davide è insomma uno dei pochi viventi che sa mettermi in crisi, che potrebbe trafiggermi, con i suoi versi. Solo quando riemergo dalle sue scritture riguardo le mie e le vedo tremare, mi punge l’ipotesi di bruciare tutto. Se leggo altri, trovo conforto, provo stima o desiderio di imitazione: tutte cauterizzazioni da letterato, veleni soporiferi. Concime sintetico che sviluppa in modo abnorme velleità e presunzioni grafomani.

Ve lo chiarisco in modo elementare. Prendete i grandi diari delle esplorazioni dei Poli di inizio Novecento: taccuini dall’inestimabile valore antropologico, scientifico e simbolico, di gente come Ernest Henry Shackleton, Roald Amundsen, Robert Falcon Scott, Edward Adrian Wilson. Non saranno poesia, ma una faglia della storia umana che ispira. Da queste scritture, per esempio, ha preso l’abbrivo anche il poeta Roberto Mussapi. Provate a leggere il suo Antartide: tutto quadra, tutto è perfettamente didascalico: una guida turistica in tono poetico (elevato). Leggetelo, e troverete consolazione. Avrete l’appagante esperienza estetica di pensarvi tra i ghiacci dei poli mentre sprofonderete sul divano di casa.

Se invece volete mettervi veramente in gioco, se davvero volete una destabilizzante lezione di poesia, inoltratevi nell’abbecedario di Davide. E davvero proverete l’imbarazzo di sentirvi di nuovo bambini, storditi nello compitare in una lingua nuova le fattezze di un mondo slogato, in cui non capirete più dove si trova il nord e dove il sud, dove l’est si separa dall’ovest. Perderete il senso dei confini tra l’umano e l’animale (il bestiario poetico di Brullo è ormai sovraffollato e illogico), tra il passato e il presente, tra i morti e i venturi. Non ci credete? Non ci credete, lo so. E allora bollate questa “confusione” come “insensatezza” e statevene tranquilli nella prosa del mondo: non apprenderete però una sola lettera dell’alfabeto della poesia, dal momento che la poesia non ha mai nulla di didascalico, anche quando si nasconde sotto le fattezze del noto.

Il mondo di Davide è una mostruosa galleria di frattali; la sua immaginazione gemmante squarcia continuamente la consolazione del reale: per questo può condurre a vedere. Con questo Abbecedario perderete la cognizione dello spazio, e allora forse comincerete a capire che, senza essere a latitudini estreme, state davvero camminando su ghiacciai infidi, abbagliati da troppa luce. Perché il solo paesaggio del poeta è la sua lingua.

L’unico consiglio che vi lascio, qualora foste interessati a buscarvi la sonora lezione, è quello di rimanere aggrappati a certi versi dal nitore più classico e ipnotico (vi serve un piccolo campionario motivante? Ma è compitino da recensore, soddisfate le vostre rapide e fugaci voglie con una ricerchina su Google), e ripeteteli come totem: diverranno colonne di ghiaccio nel nulla apparente che vi serviranno per diradare l’ignoto. Anzi, che dico, per imparare a confidare nell’ignoto.

Come io confido in Davide, sempre così lontano, sempre avventurato nella direzione opposta, eppure col suo fiato famelico e amico a un centimetro dalla mia giugulare.

 

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