Poeti contemporanei: Enrico Testa

A presidio della poesia di Testa (docente universitario e critico) vi è una sorta di possibile equivoco, come una prova d’ingresso per la lettura. Prendiamo in esame anzitutto La sostituzione. L’involucro formale non ne rivela il carattere; le strutture metriche e retoriche non seguono la musica dei pensieri, profonda, che sovviene a questi versi. La poesia ci viene incontro, per parafrasare il titolo di una raccolta, in controtempo.

La serie infatti di testi brevi, apparentemente e relativamente sciolti, che si sgranano davanti al lettore in posa dimessa (l’incipit è di rigore minuscolo e mancano titoli e punti finali) senza raggiungere, nella maggioranza dei casi, l’endecasillabo, prendono con disinvoltura l’andamento della cantilena, a tratti persino della filastrocca o comunque seguono il capriccio di una rima facile e sonora, soprattutto nelle clausole: ebbene, tutto questo lascerebbe presupporre una scioltezza di tempi, una leggerezza di pronuncia che solo i momenti più intensi smentiscono, aprendo infine il varco per un diverso tempo di lettura e di comprensione, dilatando la semplicità di questa poesia in purezza espressiva. C’è uno straniamento di fondo a manifestare il beffardo contrasto tra la superficie grafica e i temi in essa congelati.

Il fatto è che la tradizione di riferimento dell’autore è persino troppo evidente, ed emergono fin dai dati biografici i nomi determinanti di Caproni e di Montale, campioni di una linea ligure forse storicamente imprecisa, quanto viva alle radici di queste poesie. E a ciò si aggiunga il vuoto della vita odierna, per cui non resta al nostro tempo che farsi eco di vicende altrui (sullo sfondo, anzitutto, la guerra). Ecco allora che questi versi si offrono devotamente come trucioli, ossi di seppia, «legna sulla spiaggia / dopo la mareggiata», vale a dire tracce consapevolmente terminali, per quanto pronte, in virtù della propria ostinazione, a caricarsi di un riflesso ulteriore e brillare di una consistenza tenue e drammatica insieme, proprio perché risuonano con una musica sorda, diremmo, contrariamente all’aspetto esibito. L’ironia e la grazia iniziali diventano maschere per sensazioni sempre più invasive di fatica e di angoscia.

Eppure, è altrettanto evidente quanto la semplicità raggiunta sia ricca di stratificazioni: «lo stile semplice», teorizza lo stesso autore, «non può ricondursi ad una versione ridotta o primitiva della parola letteraria, ma, anzi, presuppone, proprio per i suoi obiettivi stendhaliani di diretta comunicatività, un apparato di procedure compositive ed espressive estremamente raffinato e complesso». La dizione è naturalmente dotta, ovvero capace di nutrirsi di versi altrui con naturalezza. Le note che chiudono il volume sono indicative, ma ecco qualche altro esempio o ipotesi esplicativa. In una poesia («questo che mi spinge / a pedinarvi ignari / tra i pitosfori grigi / d’acqua salsa / nei giardini di gennaio, / se sia terrore o amore / non lo so. O forse stanchezza / o l’acre grazia dell’agguato») si risentono in filigrana le movenze dei versi iniziali del Piccolo testamento di Montale, privi peraltro dei suoi scatti assertivi; oppure, la poesia che apre la sezione Fuga non teme persino un patente richiamo petrarchesco («non voi che m’ascoltate…»). E molti frammenti rispecchiano topoi caproniani, soprattutto quando oggetto di qualche battuta (si veda del resto il titolo della prima sezione, Quattro battute) è una figura in qualche rapporto con la religione, toccando così il discorso teologico caproniano, come per esempio il prete che dice «a voce fioca / “Fate la conta dei vostri lutti” / e poi con forza / “Buona trasfigurazione a tutti!”», oppure quando il paesaggio è una radura o un bosco in cui si assiste a un «inseguimento».

Ma accanto alla pressione della memoria letteraria, dicevamo, c’è il tempo, o meglio la sua sospensione in uno stato di attesa, di pazienza (altre parole chiavi che rimbalzano nei titoli), che piegano l’attore principale a un ascolto assoluto, fino a rendere diffuso e indistinguibile il soggetto, perso fra le apparizioni, le voci, le scene sospese che disegnano una trama a volte quasi poematica (come nel capitolo eponimo, dove si occulta una sorta di sacra rappresentazione di cui «la radura degli ulivi» è soltanto uno degli indizi), a volte percepita solo nella mancanza, per il movimento di contrazione dato dalla perdita (rammentiamo a questo punto i versi che campeggiavano sulla copertina di In controtempo: «il mio sé vuoto lo prendo, / di fronte al mare, / in controtempo; / il ritmo della morale / è uno solo: / a levare a levare»). Del resto, il testo introduttivo della silloge precedente si apriva programmaticamente verso il lettore: «inventala tu la mia storia, / che sai i colori del carattere / e le ragioni del mio nome, / scegli i pezzi giusti, / quelli della passione pura, / che vanno infine a posto / e che compongono la nostra / (unica) figura». Ma c’è un testo altrettanto emblematico della Sostituzione (titolo pure importante in tale chiave interpretativa) che sembra offrirci in una scena quotidiana la perfetta allegoria dell’identità paradossale del poeta e della sua voce: «ma che bruci il roseto delle citazioni / al ricordo del piccionfàno / che il venti agosto / dice a cena / (in un’osteria di Ne) / tutto d’un fiato / “io sono te, tu sei me!”»; pochi versi che mettono a combustione il sacro (il «roseto»), il comico («piccionfàno» sta per petit enfant) e la memoria poetica (l’aria familiare che si respira nell’«osteria») davanti a una verità terribile ridotta a boutade infantile.

«Cos’è l’elementarità di una rima», asseriva Cesare Viviani presentando alcune poesie di Testa in rivista, «se non quella mossa ripetuta, quel movimento ciclico dei giochi dei bambini che, mentre allieta, spalanca inesorabilmente il vuoto dei secoli? […] Ci sono passaggi, analoghi all’andamento a spirale delle filastrocche, dove la purezza del gesto verbale inquieta più di un misfatto, copre la pelle di brividi. Questo luogo innocente e raccapricciante dove l’ingenuità scarica all’improvviso tutta la sua colpa – che è quella di far vedere tutto quello che non ha visto – mi pare sia il punto iniziale del lavoro poetico di Testa».

Resta però da valutare, dopo l’auscultazione dell’opera, il significato che assume all’interno (oppure oltre) la tradizione che da sé medesima rende attiva: e mi sembra allora che gli stilemi caproniani abbiano ancora una parte troppo cospicua nella voce dell’autore, tanto da far scivolare, malgrado tutto, la musicalità sorda e profonda con cui affiora il tema della perdita e della morte in un discorso che si trascina ed espande, per la forza di tali strutture, in parentetiche, accumuli e parallelismi talvolta ridondanti e riempitivi, che imitano la vanità della storia, soffrendo l’impossibilità di aprirsi in una visione più vasta e coraggiosa: restano, insomma, relitti sulla spiaggia, memoria dell’assente, scabre nostalgie di un viaggio a mare aperto.

(da Poeti nel limbo)

 

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