Poeti nel limbo (1). Una ferita ancora aperta

Il ciclo dedicato alla presentazione dei “Poeti contemporanei” è giunto al termine. Ormai quella che mi pare si debba considerare l’ultima generazione del Novecento, per quel che riguarda il sottoscritto, è stata ampiamente descritta. Prossimamente riporterò il quadro completo, che andrà inserito nel contesto di tanti altri poeti del secolo scorso.

Ma gli autori nati negli anni Cinquanta e Sessanta non potrebbero essere considerati anche i primi del Millennio? D’altronde, giungono a maturità e magari a qualche effettiva visibilità letteraria soltanto dopo il Duemila. La questione è aperta, ma le mie ragioni sono implicite in tutto l’impianto interpretativo riversato nel sito. La riassumo così: non è mera questione anagrafica, dipende dalla sostanza del lavoro poetico. Con questi autori, insomma, nasce qualche elemento che supera l’orizzonte letterario novecentesco, oppure si inseriscono nel solco già esplorato dalla tradizione? Io propendo per la seconda ipotesi. Qualcosa di nuovo è stato tentato con il progetto di Atelier, anche se poi tutto si è spento in un glorioso fallimento.

Posto che essere considerati tra i primi poeti di una nuova periodizzazione non significa granché, ovvero non comporta affatto un giudizio di valore, non implica superiorità ma solo differenza, la presunta generazione poetica successiva (alla quale dovrei appartenere) è ancora tutta da delimitare, esplorare e comprendere. Ma non è detto che qualcuno si assuma questo compito improbo, che si tende a demandare alla sequela (liquidatoria, arbitraria, partigiana) delle antologie. Io invece l’impegno di rileggere e attraversare la generazione che mi aveva preceduto (per quanto “invisibile”, sommersa) me l’ero imposto. E mi piace ora, dopo aver riproposto le letture individuali di ciascun poeta, riproporre il quadro interpretativo che ne era scaturito. 

Ecco dunque (in più puntate) l’introduzione che scrissi a suo tempo per Poeti nel limbo. Risale al 2004 ma risulta ancora sotto tanti aspetti sorprendentemente, drammaticamente attuale.

ATTRAVERSANDO LA SELVA OSCURA

Una ferita ancora aperta

Non esiste, a oggi, uno studio completo sulla produzione poetica degli autori che, a una manciata d’anni dall’inizio del nuovo secolo, risultano all’anagrafe compresi fra i quaranta e i cinquant’anni circa. Ovviamente, non mancano preziosi contributi, sia saggistici sia antologici, che sondano con proprietà lo stato presente della poesia italiana [1], ma il numero degli autori lasciati «tra color che son sospesi», senza il «battesmo» di un vaglio critico non sommario, è impressionante. Non ci si può consolare neppure con l’illusione che, prima o poi, i valori si assesteranno: se nemmeno il presente riesce a salvaguardare le proprie opere, diventa un alibi sperare che in futuro qualcuno valuti con più intelligenza e obiettività, senza avvalersi di un setaccio iniziale. Così, se è facile additare casi di autori ormai usciti dalla linea d’ombra, che pubblicano presso editori prestigiosi e riscuotono un certo consenso, nondimeno la visione critica d’insieme sfugge e, dunque, sfuggono le ragioni stesse di una predilezione a scapito di un’altra.

Si potrebbe discutere se, allo stato attuale, un simile lavoro sia opportuno o quantomeno realizzabile: si pensi, per rendere l’idea degli ostacoli che vi si frappongono, alla dispersione editoriale, alla moltiplicazione degli autori, alla latitanza della critica, alla perdita d’autorevolezza di tutte le istituzioni (accademiche, giornalistiche, politiche, scolastiche) che teoricamente dovrebbero tenere il polso della situazione e promuovere la cultura contemporanea. Il dubbio, insomma, è che non ci si trovi tanto di fronte a poeti relegati in una zona marginale, quanto piuttosto al declino irreversibile della poesia tout court: altro argomento così solido da diventare assiomatico e paralizzante. Eppure, a coloro i quali indagini a vasto raggio per monitorare il presente appaiono sempre precoci risponde da anni un coro concorde che lamenta il cronico ritardo della critica, il cui baricentro risulta fermo agli anni Settanta: periodo della nostra storia letteraria assai controverso, in cui si è registrata una frattura non ancora compresa in quella che, usando un altro termine problematico, chiameremo tradizione letteraria. Prova ne sia la recente istantanea che Alfonso Berardinelli ci ha lasciato al momento di licenziare la seconda edizione dell’antologia Il pubblico della poesia, apparsa la prima volta nel 1975:

Essere poeta era secondo me un rischio maggiore che in passato. I fatti lo hanno confermato. I critici e gli editori da allora in poi hanno lasciato i poeti a se stessi. A volte li hanno del tutto trascurati, altre volte li hanno consacrati un po’ a caso.
Il risultato è che oggi, quasi trent’anni dopo la pubblicazione di questa antologia, invece che pluralità e compresenza di tendenze, c’è piuttosto una vera e propria confusione critica. Con gli anni Ottanta si è formato un “piccolo canone” comprendente una decina di autori, ma questo è avvenuto non perché un certo numero di critici fossero al lavoro e si discutesse della qualità dei testi. È avvenuto per decisione editoriale o perché alcuni autori mostravano di avere un talento autopromozionale più spiccato di altri. Così oggi se si vanno a vedere le collane di poesia dei maggiori editori italiani si può trovare di tutto: i nomi dei poeti effettivamente migliori si trovano accanto a quelli di autori che non si capisce neppure perché siano stati pubblicati e da quale mai genere di lettori possano essere letti. [2]

Berardinelli colloca proprio all’altezza degli anni Settanta la rottura del patto fra autori e società, con l’oblio della figura dell’intellettuale, ormai prigioniero di un ruolo del tutto autoreferenziale.

Verrebbe persino da intendere il desiderio di «ricominciare dall’inizio della vicenda» quale estremo tentativo di ricusare il falso storico che ci troviamo a vivere, con l’aggravante, però, di coonestare involontariamente la rimozione di tutto ciò che nel frattempo è avvenuto, tanto che il «Post scriptum» alla nota introduttiva di Franco Cordelli al medesimo volume, tracciando un raffronto spicciolo fra la situazione di allora e quella attuale, cede ancora all’inventario personale: stratagemma ormai consolidato, al pari dell’antologizzazione, per paventare un aggancio con una contemporaneità troppo complessa e mobile, di fronte alla quale non sembrano resistere più strumenti d’indagine. Un elenco di nomi a guisa di titoli in borsa, però, non serve a nulla e perpetua l’impasse del pensiero: proprio perché la situazione odierna è tanto complicata l’attività del critico diventa necessaria.

Incerti o in disaccordo intorno agli anni Settanta, i principali esponenti della nostra cultura, dunque, non si sono quasi accorti che, nel frattempo, una serie di poeti ha cominciato a lavorare e a manifestarsi compiutamente, benché sommersi da un contesto non poco avverso. Si è detto poeti perché, com’è noto, la situazione sul versante della prosa è differente: per quanto sia ancora ambivalente il giudizio sulle ultime leve di scrittori, esiste una schiera riconosciuta e a suo modo consacrata di narratori. Sarebbe, questo, un altro punto di discussione interessante, che qui non è il caso di sviluppare. Un quesito, però, va sollevato. Secondo alcuni, spesso gli stessi giovani narratori o qualche critico a loro prossimo, la caotica proliferazione di scrittori è la logica conseguenza di un momento di crisi “epocale” che investe l’intera nostra società e che permetterà l’elaborazione di nuovi modelli operativi e di figure alternative d’intellettuali: argomento che è moneta corrente del Postmoderno. Del resto, il continuo dibattere intorno al ruolo che il letterato si vorrebbe assumesse nella nostra società esprime non solo disagio e nostalgia per un declino, reale o supposto, che a partire quantomeno da Baudelaire ha condannato i poeti a una sorta di limbo culturale, ma comunica anche inquietudine e curiosità per i compiti inediti che la civiltà odierna e futura finirebbe per attribuire loro (fosse pure un ruolo residuale, paradossalmente autodistruttivo). Stringendo il discorso sul nodo che ci interessa: i narratori sarebbero stati più lesti a cogliere la trasformazione dello statuto della loro opera e del loro mandato, per cui, a differenza dei poeti, legati a modelli superati, hanno trovato il varco per farsi luce in un contesto certamente non facile, soprattutto per quanto concerne l’editoria.

La questione è stata sollevata anche da Giovanardi, che, parlando delle ultime generazioni poetiche e cercando ulteriori ragioni oltre alla «stretta editoriale senza precedenti» per giustificare la loro aridità, accenna persino a «una disposizione soggettiva degli autori, quasi una mutazione genetica […] intervenuta nel rapporto fra il produttore di letterature e l’oggetto della sua attività»:

È impossibile non notare come alla sopravvivenza asfittica e malcerta della poesia corrisponda da qualche tempo un’impressionante proliferazione quantitativa della narrativa, che è favorita certo dalle strategie commerciali dei grandi editori, ma che trova comunque terreno fertile nelle scelte creative dei singoli scrittori. La pletora di narratori non ancora o appena quarantenni che vantano già dai cinque ai nove titoli fra romanzi e raccolte di racconti, e che continuano a produrre a ritmi forsennati, tende a far pensare che al mito dell’Opposizione sia subentrato come stella polare dell’attività letteraria quello del Mercato, con tutte le esigenze di circolazione e perenne rinnovamento della merce, nonché di presenza promozionale del produttore, che esso comporta; e che si sia quindi determinata, nell’evoluzione della cultura letteraria italiana di secondo Novecento, una brusca inversione di tendenza, una strozzatura intellettuale che lascia passare, anche e soprattutto a livello soggettivo, soltanto materiali compatibili con la natura di quel mito ormai profondamente inciso nell’immaginario individuale e collettivo. [3]

Ma i versi, è risaputo, non hanno mercato ed è tutta da dimostrare la «devastante aridità» degli autori successivi alla generazione dei nati fra il ’40 e il ’50: il fatto è che la produzione dei più giovani resta editorialmente invisibile anche perché nessun critico ha attraversato in modo autorevole quel limbo che rappresenta da anni il reale laboratorio della poesia contemporanea. Se poi esiste un effettivo squilibrio generazionale fra la produzione dei narratori e dei poeti, sia a livello quantitativo sia a livello di credito riscosso, aver resistito alle sirene del mercato potrebbe anche essere un merito dei secondi: un pegno di autenticità che chiede verifica da tempo.

NOTE

[1] Una citazione su tutte è doverosa: il saggio di Matteo Marchesini, dal titolo Gli esordienti, apparso in Poesia 2002-2003. Annuario, a cura di Giorgio Manacorda (Roma, Cooper & Castelvecchi 2003, pp. 78-216), risulta la campionatura più vasta e organica finora tentata almeno nell’ambito degli autori che hanno esordito negli anni Novanta.

[2] Alfonso Berardinelli, Cominciando dall’inizio, in Il pubblico della poesia. Trent’anni dopo, a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, Roma, Castelvecchi 2004, pp. 7-8.

[3] Stefano Giovanardi, Introduzione a Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Milano, Mondadori 1996, pp. LVI-LVII.

 

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