La poesia sapienziale di Pontiggia
I versi di Giancarlo Pontiggia, ancor più nell’ultima raccolta, Il moto delle cose, sono intrisi di sapienza. Ma c’è da intendersi: non si tratta di versi eruditi che si cristallizzano in massime (benché la tensione al motto sia in qualche modo congenita in un autore così nutrito di poesia classica, cui si aggiunge l’influenza di Montale, che lascia tracce sottili anche in quest’opera), ma di una poesia interrogante, che abbraccia interamente anche la propria ignoranza mentre indaga i fenomeni alla ricerca di un senso.
Lo scenario è essenzialmente lucreziano. Ne è una spia già l’uso del sostantivo cose (e il sintagma “natura delle cose” ritorna in almeno un paio di occasioni), apparentemente generico eppure catalizzatore poetico efficace, accumulatore di suggestioni, che suggerisce lo sguardo totale del poeta sull’esistenza, intesa come complessiva vicenda dell’umano su questa terra e non solo come problema biografico. Le cose (talvolta si osa dire il mondo) hanno una storia più ampia dell’uomo:
E vedi che durare possono
le cose che non hanno vita,
e tu muori,
e questi versi, che altri un giorno
leggeranno, durano più di te,
e tu non duri,
e li hai fatti
e in queste stanze
dove tante ore hai
dormito, altri
ci dormiranno: e così poco
è la vita,
che un verso, un muro, un letto
sono più lunghi di te,
erano prima, e sono dopo
di te.
Lo sfondo è dunque dominato dal vuoto, che permette il vorticare degli atomi, il divenire del tutto.
E il vorticare, il conflagrare, il franare, lo sgretolarsi, lo straripare delle cose, dà risalto anzitutto agli elementi primari, dalla suggestione spiccatamente filosofica: il fuoco, l’acqua, il vento, la polvere, l’ombra, la luce… Il testo poetico asseconda tutto ciò attraverso un procedere per accumuli, che predilige il colore, che cerca la sfumatura senza lesinare sugli aggettivi, e che dilata i periodi fin quasi alla lunghezza del poemetto se necessario, pur di assecondare l’energia di uno sguardo tanto globale. (Ma la poesia di Pontiggia conosce anche la compostezza classica dei versi brevi, del cammeo epigrammatico – o meglio ancora del frammento, traccia umana che tenta di resistere all’impermanenza e porta in sé la ferita del divenire che corrode). Si scopre così, tra certi passaggi dialogici ma soprattutto dietro a certe movenze sintattiche, specialmente se incardinate dalle interrogazioni, la lezione di Mario Luzi, anche quella più complessa degli ultimi poemi. Certo il poeta fiorentino lascia brillare sullo sfondo delle sue opere una luce paradisiaca che deriva dalla sua formazione cristiana, mentre qui troviamo più provocatoriamente un anacronistico Ade, utile a sottolineare maggiormente la contingenza di ogni sovrastruttura culturale; ma in entrambi si manifesta il desiderio di indagare il punto di attrito fra materiale e immateriale. Ne sono una spia evidente i verbi (di matrice potentemente dantesca) che indicano lo sforzo di prendere forma, a testimonianza di un’energia cosmica che desidera acquietarsi (almeno provvisoriamente) in un dettaglio: “s’incavedia / il lume della vita”, “E t’immoti, nel tuo ultimo qui”, “s’impollinano”, “intediato”, “s’intrudono”, “s’infima”, “t’increti”, “s’indedala”, “s’inventrano”. Ma la sintesi di questo movimento è dichiarata magistralmente fin dalla prima poesia, che si chiude così: “verbo / che s’intana // in una lingua di troppo gelo, / di solo, forse, // vuoto?”. Quel forse, quell’interrogativo finale, oltreché naturalmente quel sintomatico sostantivo (“verbo”) dimostrano chiaramente come la ricerca di Pontiggia corrisponda a quella di Luzi, come recto e verso di una stessa pagina. Dire Dio e dire Nulla, parlare di Presenza o di Vuoto, a certe altezze vertiginose di pensiero e di poesia risulta in fondo indifferente.
Il miraggio a cui tende la poesia di Pontiggia è rientrare, per via di pensiero, nell’origine cosmica (e si ricordi che Origini è giustappunto il titolo con cui il poeta ha voluto siglare tutta la sua precedente produzione). Ma ricongiungersi all’inizio, al bollore primigenio (broda, pappa primordiale: la stessa scienza è dantescamente parte dell’indagine poetica) serve ovviamente per comprendere la fine, che potrebbe anche risultare “caritatevole”, benché si presenti come “niente che germina dal niente / stesso che genera se stesso”. L’eroismo dell’uomo consiste nel tentativo di stare in mezzo al moto delle cose, come antenna ricettiva in mezzo ai venti, culmine del mondo, sofferta, paradossale coscienza che ingloba il buio, il mondo cieco delle cose.
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