Fuori catalogo (3)
Elio Balestrieri non era in sé l’Editore vero e proprio, benché ne rappresentasse la visibile incarnazione. L’Eccelso, Max non l’aveva mai visto di persona, ne aveva soltanto sentito parlare con deferenza. Il dott. Balestrieri stava all’Eccelso come il Figlio sta al Padre.
Il fatidico giorno, un venerdì, Elio sopportava la sua settimanale passione: mettere un minimo di ordine in mezzo alle carte accumulatesi nei giorni precedenti. Con un senso di noia e insieme di inesorabilità, spostava lettere e buste perlopiù senza aprirle, ma di tanto in tanto, un po’ per inerzia un po’ per la spinta di qualche dettaglio strano (un timbro postale mai visto, una grafia intrigante, il colore della busta), apriva e leggiucchiava qualcosa.
Ne sbirciò una e se la pose accanto alla carpetta davanti a sé.
Aveva appena gettato nel cestino il malloppo da cui aveva estratto la lettera, quando la segretaria gli annunciò l’arrivo di Max.
Lo studio del dott. Balestrieri, non particolarmente vasto, si trovava al terzo piano e si affacciava verso il cortile interno, dove vi era una vasca, evidentemente pensata a mo’ di laghetto, nella quale guizzavano, si fa per dire, alcuni pesci. Attorno ad essa: qualche pianta e un paio di panchine, sempre vuote.
Max si accorse che avrebbe avuto bisogno di rapporti ben più assidui con il suo editore (accidenti, il suo ex editore: ma un libro non è come un matrimonio, un evento irreversibile, per sua natura teso al “per sempre” dell’amore?) per memorizzare il tragitto da percorrere per raggiungere quella stanza, tale era l’intrico di corridoi, uffici, scale, atri e saloni con varie postazioni di lavoro che doveva attraversare. Sbirciando qua e là, fra le porte lasciate aperte o socchiuse o sulle scrivanie separate da bassi divisori, si affrontava tutto quell’armamentario di cartellette, raccoglitori, fotografie, bozze di copertine, plichi, giornali, ritagli e agende, alla rinfusa, che lasciavano presagire un fermento redazionale, che tuttavia veniva smentito dagli sguardi di tutte le persone che occupavano quelle stanze: davanti ai monitor sfarfallanti, tutti (benché si trattasse nella maggior parte dei casi di giovani, notò Max, e in particolar modo di giovani donne, ridotte tuttavia ad asettiche segretarie) sembravano zombie che non si accorgevano di nulla, tanto meno del suo passaggio fra di loro. Non c’era niente di solenne nel suo ritorno, come autore, nella sua (ex!) casa editrice, come non c’era stato trionfo o invidia quando vi era passato, ben più timido e impacciato, la prima volta.
“Chissà dove nascondono i libri”, si disse Max, “dal momento che è qui che nascono”.
Quando lo raggiunse nel suo studio, Max ebbe un piccolo tuffo al cuore, ma si sforzò di non darlo a vedere. Alzandosi dalla sedia, il volto di Balestrieri veniva assunto fra la schiera di scrittori celebri, vanto della sua scuderia e suo personale olimpo di amicizie illustri, le cui gigantografie ornavano le pareti della stanza su tre lati: sull’altro lato, di fronte alla scrivania, ecco finalmente una libreria colma di libri in edizioni lussuose.
La conversazione si fece subito cordiale. Il dott. Balestrieri chiese di ripristinare il “tu”, e Max pensò che vent’anni fa nei loro dialoghi non si erano mai presi questa confidenza, ma la novità non gli dispiacque. Non gli dispiacque soprattutto pensare che Balestrieri ricordasse il loro rapporto come più intimo di quanto veramente fosse mai stato.
Parlarono per una decina di minuti del più e del meno. Elio era abbronzato e in splendida forma, come sempre, e questo fece sinceramente piacere a Max, il quale ricordava le parole di un suo amico, poeta anche lui, solito a lamentarsi dell’aria tetra, della salute cagionevole e del volto smunto del proprio editore: gli lasciava ogni volta l’impressione che potesse schiattare da un momento all’altro senza concretizzare la pubblicazione, già promessa e sottoscritta, di quello stramaledetto libro che stagionava sulla sua scrivania da sei anni.
Elio invece raccontava dei suoi recenti viaggi ad Ambach, in Baviera, per una chiacchierata di lavoro con Patrik Süskind e la sua traduttrice («Ho trovato un tempo da lupi che non ti dico!»), poi a Pechino da Mo Yan in occasione di un Premio Letterario («È pazzesco, continuano a non volerlo lasciare uscire dal Paese… Lo sai, vero, che Mo Yan è uno pseudonimo? Significa Colui che non vuol parlare»), infine ha dovuto accettare l’invito di James Patterson, nella cui villa appartata, nella sontuosa Palm Beach, aveva organizzato un ricevimento esclusivo in onore del suo ultimo best-seller («Noi Italiani siamo davvero ancora indietro anni luce, sai? ’Sti americani non sono autori, ma aziende. Dovevi vedere. Altro che i tre tavolini di lavoro di Pascoli! Quello ha un entourage di collaboratori con cui porta avanti contemporaneamente una ventina di romanzi.»)
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