La poesia non è strana, ma naturale
Ogni volta che spiego un po’ di metrica ai miei studenti e parlo di sinalefe, dialefe e compagnia bella, mi sento in dovere di rovesciare la loro prima percezione. Pensano infatti di trovarsi di fronte a qualcosa di strano, ad artifici poetici, a complicazioni inutili. “No, miei cari”, dico loro, “è la grammatica a essere strana”. E spiego come la metrica assecondi la naturale fluenza della lingua – anche se loro hanno imparato prima la sillabazione e, con l’imprinting dell’analisi grammaticale, fanno confusione.
L’aneddoto mi è tornato in mente riflettendo sul concetto di naturalezza, legato alla poesia, sulla scorta di questa lettera che John Keats scrisse al suo editore John Taylor:
Hampstead, 27 febbraio 1818
Mio caro Taylor,
Mi pare che le tue correzioni migliorino notevolmente l’insieme, la pagina scorre meglio ora. Seguirò le tue indicazioni per la Punteggiatura − ci vuole una virgola dopo sobriamente [I. Keats, Endimione, I, v. 149], e nel brano seguente la virgola va dopo quieto [v. 247]. Ti sono davvero grato dell’attenzione e dei consigli. Che per leggere i miei versi la gente debba superare chissà quali pregiudizi − è una cosa che mi infastidisce più di qualsiasi critica, anche molto dura, di un Passo particolare. Con Endimione sono semplicemente passato dalle dande al carrozzino. In Poesia ho pochi Assiomi, e sono ancora lontano − dal Centro. Primo: credo che la Poesia debba sorprendere per un bell’eccesso e non per la sua Stranezza – che debba colpire il lettore in quanto enunciazione dei suoi più alti pensieri, e sembrare quasi una Rimembranza. Secondo: la Bellezza non deve essere a tratti, non deve lasciare il lettore col fiato sospeso invece che soddisfatto. Il sorgere, il progredire, il declinare delle immagini dovrebbe apparire al lettore naturale come il Sole − come il sole illuminarlo, e poi quietamente ma con magnificenza tramontare lasciandolo nella Voluttà del crepuscolo. Ma è più facile teorizzare su come la Poesia dovrebbe essere, piuttosto che farla – il che mi porta a un altro assioma. Che se la Poesia non viene naturale come le Foglie a un albero, allora è meglio che non venga affatto. Comunque sia nel mio caso io non posso fare a meno di volgermi verso nuovi territori invocando “Oh, aver qui una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell’invenzione” [Shakespeare, Enrico V, prologo]. Se Endimione mi farà da Pioniere dovrei già accontentarmi. Ho ragioni fondate di essere contento, perché grazie a Dio posso leggere Shakespeare e capirlo, credo, in tutta la sua profondità − e ho molti amici che, sono sicuro, se fallisco, attribuiranno ogni mutamento nella mia Vita e nel mio Carattere non all’Orgoglio ma all’Umiltà − a non volermi acquattare al riparo delle Ali dei grandi Poeti, piuttosto che all’Amarezza per la mancanza di riconoscimenti. Non vedo l’ora che Endimione vada in stampa per poterlo dimenticare e andare avanti. Ho finito di ricopiare il terzo Libro e ho cominciato il quarto. Nel riguardare le Bozze − ho notato un solo Errore. Lo correggerò subito insieme agli altri, se ce ne saranno. No ci dovrebbe essere nessuna virgola dopo “il ramo staccato che pende dall’alta vetta del frassino” [Keats, Endimione, I, vv. 334 sgg.]. Come vedrai ho cambiato qualcosa, tra cui il verso 13 a pagina 32. Avrò cura che il Tipografo non mi metta i bastoni tra le ruote. Non ci dovrebbe essere una lineetta dopo Driope nel verso che dice la “Driope solitaria culla il suo bambino” [V. 495]. Ricordami a Percy Street.
Il tuo sincero e riconoscente amico
John Keats
P.S. Tra non molto avrai una breve prefazione
Ma in questa lettera (riprodotta nella versione di Nadia Fusini, dalle Lettere sulla poesia edite nel 2005 per gli Oscar Mondadori) ci sono diversi spunti che trovo interessanti:
- il poeta teme più i pregiudizi che le critiche. C’è dunque qualche ostacolo iniziatico (in ogni epoca) che impedisce l’incontro con il testo, e in particolare con i versi della poesia. Chi interviene per rimuovere questi pregiudizi? Oggi, temo che nemmeno una buona prefazione possa servire allo scopo
- la poesia non è strana, non ha nulla a che fare con il bislacco, con il gusto dell’associazione imprevista fine a sé stessa. La sua sorpresa deve rivelare un pensiero che in fondo giaceva già, in nuce, nel lettore: quasi che la sua novità sia una rimembranza profonda
- secondo Keats, la poesia deve essere pervasa interamente di bellezza, deve cioè essere armoniosa nel suo insieme – se ben intendo. Ma noi ormai siamo lontani, storicamente e psicologicamente da un simile orizzonte e non possiamo che mirare, al massimo, a un’armonia di secondo grado, che nasca a partire dai frammenti del reale in contrasto fra loro, dalle dicotomie di ogni principio di fondo…
- la Poesia non è frutto di uno sforzo, di una volontà. Si potrà essere abili versificatori, in tal caso. Ma l’estro e il talento attecchiscono solo in un’indole particolare. (Io non credo romanticamente al destino, ma a un certo punto alcune potenzialità informi in una persona vengono plasmate dagli eventi e le scelte si riducono, gli orizzonti vitali si restringono, finché uno non aderisce pienamente alla sua forma)
- un vero poeta è pacificato anche dalla semplice possibilità di fruire (sconfitto ogni pregiudizio e giunto ai segreti della naturalezza) della poesia altrui;
- epperò se osa scrivere, se osa nascere come poeta fino ad assumersi ogni responsabilità, preferendo il fallimento alla rinuncia, al disconoscimento della propria natura, lo fa per umiltà, non per superbia
- tanto più che il poeta scrive per concedersi la grazia di dimenticare e, alleggerito, andare avanti.
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