L’elenco dei colpevoli
C’è un nesso evidente tra la grottesca situazione politica del nostro Paese e la crisi, nemmeno più avvertita come tale, che paralizza la nostra cultura. Siamo rassegnati al brutto, non riusciamo più a indignarci per l’immoralità che si fa regola, non protestiamo per la sopraffazione costante. Le parole si sono svuotate di ogni significato, sono banderuole esposte al vento della mistificazione e vince, senza mai convincere, chi ha i polmoni più forti. Siamo talmente istupiditi da offrirci perpetuamente alle svendite, ai saldi di stagione, agli slogan patinati e insulsi: si mercanteggia la nostra stessa dignità e nemmeno ce ne rendiamo conto, ci propinano la soddisfazione ottusa ma immediata per coprire il disastro che ne sarà la conseguenza e, ormai totalmente dipendenti, in piena crisi di astinenza, ci mettiamo in fila per riconsegnarci, fedeli e scodinzolanti, alle carezze dei nostri aguzzini. Le quarte di copertina valgono le dichiarazioni d’intenti di chi desidera (per la propria sopravvivenza) il nostro voto. Siamo degni dei nostri padroni.
Se in politica almeno di tanto in tanto qualche scandalo suscita un momentaneo scalpore (scosse di elettroshock che danno un sussulto ingannevole al corpo della società), a queste latitudini tutto sprofonda nella melassa di omertà e di ipocrisia. «Ma quanto sei bravo!», ti dicono in faccia, stringendoti forte la mano; poi però quando si tratta di votare, la X si mette dove conviene (ci si illude) per il proprio tornaconto. Sarebbe persino comprensibile, perché attaccabile, se ciò manifestasse una malizia esplicita, e invece non c’è rimorso, non c’è percezione di incoerenza: si svende la propria anima in buona fede, certi del paradiso, certi di poter essere amici di tutti.
Per fortuna di tanto in tanto arrivano loro: i tecnici. Quelli che sono imparziali, quelli che conoscono le leggi del progresso, quelli che discendono dall’aristocrazia dei bei tempi che furono: i non riconosciuti intellettuali dei nostri tempi, ma aggiornati come si deve e perciò senza bandiera. I loro biglietti da visita sono l’efficienza e l’organizzazione, e sono una schiera di lavoratori indefessi. Ed ecco allora le graduatorie di qualità (dove la garanzia è la quantità), ecco gli almanacchi dove si recensiscono tutti, ma proprio tutti, i libri di poesia dell’anno (dove anche quelli brutti diventano belli), ecco le antologie a più mani che registrano tutta (o quasi) la bibliodiversità del nostro mondo, ecco persino i censimenti ufficiali delle generazioni di poeti. Chi oserebbe mettere in discussione il loro encomiabile impegno? Sarebbe come cavillare, a scuola, sul significato delle competenze o mettersi a discutere all’infinito le griglie di valutazione, salvo poi non capire più, dopo innumerevoli misurazioni, quale sia la differenza tra una pagina di D’Avenia e una di Manzoni.
Così, ognuno se la sfanga come può. C’è chi si predispone a una gavetta pluridecennale, per meritarsi il premio della giusta poltroncina. C’è chi, dopo aver estorto una svagata prosetta dall’Autorevole Nonno (che più volte si era detto ormai sordo alla musica contemporanea), può riciclarla come credenziale a ogni risvolto. C’è chi studia i format più redditizi e chi, semplicemente, se li compra. C’è chi se ne sta nel suo angolo, solo e rancoroso, a grattarsi la propria rogna maledicendo il mondo, e chi se ne sta beato nella contemplazione dei cieli sublimi, senza curarsi del fango che ci sommerge. C’è chi concorda con tutto quel che si è detto e non farà nulla, e chi crede di aver già capito dove si vuole arrivare, perché è furbo e sgamato e non si lascia incantare – quindi anche lui non farà nulla.
Nessuno è più innocente. Non aspettiamoci una generazione che giudichi meglio. Siamo tutti colpevoli. Ormai il combattimento è senza avversari, se non noi stessi.
Ho voglia di scrivere cose bellissime e terribili. Ma per chi?
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