Giovanni Giudici (2)
Recita a soggetto. Appunti su Giovanni Giudici (2 di 3)
Vanno sicuramente ascritte agli esiti più tipici di Giudici le sequenze affabili e colloquiali di Una casa a Milano, Se sia opportuno trasferirsi in campagna, Una sera come tante, Le ore migliori, Quindici stanze per un setter, poesie che sintomaticamente portano a tema l’abitare e chiudono entro uno spazio domestico tutte le tensioni sociali e biografiche che caratterizzano il personaggio, proprio come le strutture metriche e retoriche, l’understatement espressivo e la prossimità intima degli interlocutori determinano il margine di concentrazione della fantasia poetica. Si evitano in questo modo anche le pesanti cadute “realistiche” che potevano affiorare entro una condensazione simbolica più vaga, come per esempio in Tempo libero («la sveglia sulle sette, un rutto, un goccettino / – e tutto ricomincia – amaro di caffè»), Con lei («A pensarci, lei era poco più d’una sciocca, / oggi diresti che la mette giù dura, / e molto meno ti chiede colei che ripete: / cinquemila in albergo e in macchina due, con la bocca») o Le giornate bianche («Di altro più che realtà ci disturba il pensiero: / come l’uomo – non so – che all’aperto / costretto a defecare teme che arrivi / la guardia o l’impiegato esemplare / segue con batticuore la teppista puttana / nell’alberghetto trepido di sorprese»).
Dentro questi confini, il ménage diventa specchio delle strutture sociali, il rapporto con la moglie esprime la dialettica stessa fra vita e versi, mentre il rapporto con i figli o gli amici offre l’opportunità di riattraversare l’educazione personale, il carattere e gli umori di un io così “tipico” da assorbire ogni immediata proiezione autobiografica. Sullo sfondo, ma spesso portato in primo piano dalle apparenti divagazioni descrittive e narrative, campeggia la città, una riconoscibilissima Milano, e attraverso di essa, in filigrana, l’Italia intera:
Via Lorenteggio era ridente
di sole nei giorni della tramontana
ai primi di gennaio, ma prudente
ci sono ritornato e più lontana
mi sembra ora che piove e rare luci
di negozi si mostrano e più rari
gli autobus, più fitta tra i filari
degli alberi la nebbia in cui traduci
come da effetto a causa il prezzo mite
per metroquadro, causa i prati nudi
o i terroni di Baggio dove escludi
vivere – affermi – tra vino e lite.
Ciò permette da una parte a Giudici di ripercorre tutta la vasta gamma espressiva del proprio repertorio e, dall’altra, di crearsi un mito dentro quella “lombardità” poetica che subentra sempre più agli originari riferimenti “ligustici”: «questo fui» – afferma il poeta sempre in Una casa a Milano, da cui erano tratti anche i versi precedenti – «vivo nel mio secolo ma volto / nel cuore ad altro, avanti mio proposito / di verità, attento a riconoscere // dentro e fuori di me il nemico scaltro», un po’ come Sereni traccia il suo “esile mito”: «Non lo amo il mio tempo, non lo amo»[1]. Se il sentimento oscuro di disagio di quest’ultimo rappresentava il pegno per l’appuntamento mancato con la storia, in Giudici è lo stigma originario di una forma di viltà, di debito, che si traduce in abnegazione, in una fervorosa ricerca del decoro che copre un sentimento di colpa, che spesso si proietta sull’equivalente sociale della fede comunista:
Un confuso sentire in una forma
costringo e me di un’ora oltre la resa
del mio giorno e di te che dici: sono stanca,
dei figli che resistono ogni offesa.
[…]
Senza averla, una casa, so com’ero:
dici che sarò meglio, mi consoli.
La proprietà fa liberi… Ma no:
è impossibile salvarsi da soli.
Non mancano, peraltro, toni apparentemente più leggeri, come in Se sia opportuno trasferirsi in campagna che, nella ripresa di un motivo dal sapore pariniano, si appropria ancor più delle predilezioni letterarie milanesi (Raboni per esempio scrive L’insalubrità dell’aria, mentre Giudici annota: «Sarà opportuno trasferirsi in campagna, / una più salubre aria ci invita»), magari lasciandosi trasportare da un tema quasi musicale, in strofe che sembrano adatte a una canzone di Paolo Conte:
Se sia opportuno trasferirsi in campagna
spesso pensiamo: qui ci tiene il lavoro
che non manca, il civico decoro
di cui partecipiamo, la cuccagna
delle vetrine addobbate, dei cinema aperti,
dello stadio, dei dancing, dell’ippodromo,
di ciò che vuoi pronto a tutte le ore
della voglia improvvisa… Ti diverti
anche tu nella festa cittadina,
ma se una sera d’estate troppo calda
l’afa della pianura ti stagna in cuore,
t’affanna il respiro, ti fa meschina,
per noi è facile andare in Brianza,
una mezzora di macchina se è sgombra
la via da chi ritorna, se la danza
dei fari non è cominciata. […]
Ben note sono poi le divagazioni sul destino di un cane, «un setter grosso modo», al quale il poeta concede quindici stanze (lievemente giocando sull’ambivalenza del titolo), ulteriore ironica controfigura del poeta, che a sua volta non solo è pure presente sulla scena, ma si rivolge per iscritto a un amico, dopo che questi aveva manifestato la sua titubanza circa la convenienza della vita cittadina per un simile animale:
Mio caro amico, volevo rispondere, tu
con la tua lettera a un giuoco di rimorsi
mi tenti: ma sei mesi son passati
e il mio cane sta bene, ha nome Scoop
(che in inglese vuol dire una grossa notizia),
non sporca in casa, è vivace, lo guardano
per strada quasi fosse una ragazza,
muove troppo la coda, ma ha l’altero
(quello sì) incedere della sua razza.
Non si lamenterebbe se potesse parlare.
Ovviamente, il cane si presta ad arte per una palese allegoria: la vita, qui nella sua animale naturalezza, contrapposta al civico decoro, con le ipocrisie e i luoghi comuni che impone. Dunque, la dialettica fra vita e versi che sta alla base di tutto il percorso poetico di Giudici trovano, nelle poesie in cui il poeta riesce a fare di sé il personaggio di una rappresentazione teatrale dai sapori a volte davvero gozzaniani, non una soluzione reale, ma una perfetta trasposizione letteraria, a tal punto da imporsi come centrali, normative per tutta la produzione dell’autore, la cui abilità consiste proprio nell’affrontare senza timori reverenziali anche i fatti più triti e banali. Eppure, sia Una sera come tante sia Le ore migliori si riappropriano del contrasto fra vita e versi senza cedere alla contrapposizione fra uomo e donna, fra sentimento di colpa del primo (la colpa, anche, delle velleità letterarie) e irriflessa naturalezza della seconda, che invece diventa in tutto e per tutto complice del primo e vittima anch’ella della medesima condizione: «Così non riconosci l’inganno / di chi ci ha fatti a servire». Indubbiamente, queste due sequenze rappresentano la summa del progetto poetico fin qui elaborato: i testi si dispiegano in versi lunghi e narrativi, in nuclei isostrofici, variamente cadenzati da rime che marcano quasi regolarmente in Una sera come tante anche il passaggio di strofa e da frequenti, quasi litaniche riprese anaforiche (in particolare della formula che viene assunta come titolo), che insomma diventano la piattaforma perfetta per la “gestione ironica” di una quotidianità di «impiegatizie frustrazioni», mossa da animosi progetti («scrivere versi cristiani in cui si mostri / che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti») e da un acre rimorso che viene dal riconoscimento dell’alienazione imposta dalla società («Ma se si viva o si muoia è indifferente, / se private persone senza storia / siamo, lettori di giornali, spettatori / televisivi, utenti di servizi: / dovremmo essere in molti, sbagliare in molti, / in compagnia di molti sommare i nostri vizi, / non in questa grigia innocenza che inermi ci tiene // qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene»). Non indugia a farsi tormento la coscienza della perdita di autenticità sancita dalla vita moderna («Da quanti anni non vedo un fiume in piena? / […] Da quanto ha nome bontà la paura?»), a tal punto che l’elegia, sul punto di scoprire il tragico che si cela nell’appercezione del fallimento di ogni tentativo di fuga, torna a sussumere una sentenziosità montaliana: «La verità chiedeva assai più semplici tempre. […] C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà» («Altri libri occorrevano / a me, non la tua pagina rombante»[2]), mentre ricalca il lamento sereniano per la perdita della giovinezza, età mitica della pienezza del vivere.
«L’essere è più del dire», torna a riconoscere il poeta in chiusura (Finis fabulae), riprendendo il monito che frustrava ogni possibile velleità, a suo modo eroica, implicita nel progetto formulatosi nel componimento La vita in versi. Eppure, nonostante questo «non dire è talvolta anche non essere»: ciò in qualche modo significa che le poesie di Giudici, proprio nel momento in cui rispecchiano la verità nuda e impoetica dell’esistenza, riescono a cogliere quel barlume di autenticità da sempre inseguito. A mettere la vita in versi, appunto.
È proprio tale sensazione, in fondo, a dettare il passaggio ad Autobiologia, paradossalmente spingendo il poeta a tornare a scomporre gli elementi sottesi nella sua dialettica fondante, pur di uscire dalla cifra letteraria individuata per rianimare la sfida. Il titolo infatti risulta efficace nel suggerire una tensione poetica che oltrepassa la semplice autobiografia, a costo di tentare la discesa nei fondamenti “biologici” del linguaggio e del mondo. (L’understatement lombardo, dunque, come conferma anche la vicenda di Raboni, risulta periodicamente e congenitamente sottoposto a tentazioni espressionistiche). Del resto, se veramente «è impossibile salvarsi da soli», la vita ripresa sulla pagina non deve essere la bella biografia di un unico, privilegiato individuo, ma la vita di tutti, l’esistenza tout court.
Si ripropone, dunque, con sottigliezza ma senza finzioni, l’ipotesi che anche la scrittura possa, per quanto in modo effimero e sfuggente, essere tutto, come la stessa esistenza. La vita ripresa nei versi, infatti, risulta propriamente rivissuta oppure inseguita? Il dilemma è profondo. «È nostalgia del futuro che mi estenua», aveva appena affermato il poeta, restituendo l’enigma nella sua vivezza, senza scioglierlo. «Memoria dei sensi è presente. / Passato del futuro. / Futuro del passato. / Memoria è senso immediato», ridice ora svolgendo quasi in sillogismo il postulato agostiniano, fino a giungere a un monito sibillino: «Memoria dei sensi è il niente. // Per sete finge di bere. / Ma solo non più vedere / sarà vederti per sempre» (La memoria dei sensi).
La commedia (umana) si è voltata in tragedia: a ossessionare la fantasia poetica plasmando (sfigurando) il linguaggio è il senso della fine, la morte che suggella implacabilmente ogni ambizione di salvezza e che si annuncia nell’invecchiamento quasi esorcizzato nell’atto di prevenirlo. «Coltivo emiplegia, storta bocca, / disconnetto parole e utensili, chiedo / un coltello (per esempio) da bere», si afferma ne I segni della fine. Il progetto ora, anzi, la «mania», è quella di «pareggiare biografia e biologia», per ingannare il tempo attraverso la finzione suprema: «I segni della fine posso imitarli e allontanarli. / Io so che sono loro che imitano me. / Come la vita non si può modificare, / ma al prezzo di esserne ingannati / tuttavia ingannare».
Si tratta indubbiamente di un gioco a filo di lama, che persegue scientemente la scissione psichica e linguistica. Anche dentro una rappresentazione in parte ancora circoscritta nei suoi presupposti e nel suo scenario, come la sezione Pantomime di Praga, si innesca dentro le regole sceniche il dubbio circa questa estrema, irragionevole possibilità, dettata da una logica altra:
Tuttavia un minimo d’impostura è necessario – mi disse.
La verità non coincide con la saggezza.
Stanno contro il disordine, alcune regole del gioco.
Sii grato al rituale. La verità ti divora.
Hai ragione – si aspettava che rispondessi.
Recitiamola pure la farsa del ragionevole.
Anch’io ripeterò che tutto non si può avere
pronto a morire purché non crolli il letto dove muoio.
Ma anche per me era l’ultima occasione che restava.
E prima di sottoscrivere solo chiedevo se in cambio
dell’accettare quel molto di finzione che diceva
un minimo di verità sarebbe stato compatibile.
I confini che distinguono vita e versi, insomma, si incendiano, e il demone dell’assoluto incede con passo irrevocabile («La sorte non è una scelta ma pura oggettività») fino a irrompere sulla pagina, lasciando baluginare lo spettro di un naufragio che non è più solo letterario, come si avverte nella Quinta pantomima: «speculo se potrei essere meno morto / per quella più breve caduta di gravità. / Con diligenza contemplo le modalità del mio suicidio / mentre resto in attesa delle notizie del tuo».
L’infrazione delle regole della convenienza letteraria, in un gesto finalmente sublime con cui si vorrebbe redimere un’intera esistenza condotta sui canoni del decoro spesso avvertito come vile mediocrità, espiando con essa anche la colpa originale che sembra sovrastarla, comporta la scissione dell’io, fino a un suo immaginario azzeramento. L’io-personaggio che in modo tanto perentorio quanto complesso si era imposto con La vita in versi, diventa spazio cavo entro cui possono risuonare non soltanto le residuali reminiscenze dell’ego, ma le stesse pulsioni “biologiche”, le voci dell’alterità, le stesse figure della coscienza, persino quelle che manifestano i prevedibili, ragionevoli dissensi: «Lascialo fare – è l’età. / Lascialo – non andrà lontano. / Lascialo che si sfoghi e si svaghi. / Lascialo all’eternità», è la strofa ritornello di Biologia, che si riproduce in una sorta di autodistruttiva irrisione: «Lascialo alle cellule del suo corpo. / Lascialo che si ostini nel suo gioco di pazienza. / E lascialo che ripeta – vade retro, non siamo / insetti prevedibili api…». Ciò che più forte resta dopo questo processo di demolizione è tuttavia una minima, ma resistente certezza: «Solo chi non tenta / di salvarsi non è perduto», vale a dire: solo chi non rimuove il dubbio (il dubbio reale) ha la possibilità di progredire in conoscenza.
Fin dal testo introduttivo, comunque, il poeta suscitava tali resistenze, propedeutiche nella loro cieca prevedibilità all’insinuarsi di un’ipotesi di pensiero alternativa: «Ma cosa vuole con questi lamenti questo / qui – le solite la vita in versi». Già allora, nell’inciso strofico che spaccava la voce di dissenso sussunta dalla voce poetante, gli esiti linguistici, nella loro apparente vanità ludica e combinatoria, mettevano in moto quel processo di scomposizione e di sfigurazione («la versione italiana degli Atti / la passione pacchiana dei gatti / la pressione ruffiana dei fatti / la missione mediana dei matti»), che daranno vita, nei punti più intensi della raccolta, a poesie-monologo al limite del delirio, ritmicamente ossessive (la punteggiatura è quasi del tutto soppressa), spesso polimorfe e non più contenibili nelle consuete misure (anche se, va detto subito, si resta assai lontani da esiti coevi ben più eclatanti di eversione), pronte al divertissement metalinguistico (Il verbo màinomai), alla divaricazione dei registri espressivi fin qui pazientemente intrecciati, aprendosi così a un discreto plurilinguismo. È significativo che proprio in questo libro-fucina venga accolta una prosa, Morti di fame, che nel suo valore quasi di “sfogo” assume in Autobiologia il valore cruciale di momento di liberazione. Riemergono infatti i ricordi forse più frustranti e scabrosi che rimordono la coscienza del protagonista, lo stesso che riproponeva ancora, all’altezza del libro precedente, il tema novecentesco dell’inettitudine, per quanto sagacemente rielaborato nelle sue trame e maschere interiori. Hanno un analogo valore di riscatto autopunitivo (e autodistruttivo, se «La verità divide») i versi di La coscienza sporca: «Io arrivo al più alla flebile esecrazione, / mormorare fra servi, ridetto sporadico / subito persuadibile alla ragione».
Ovvio, a questo punto, che si prenda congedo, in modo anche risentito, dall’esperienza poetica di Montale, di cui ci si era fatti cattivi interpreti: «Poesia non dà poesia la strada non era questa. // Ah cireneo Montale / la gloria molesta / del nostro leggerti male!» (Il cattivo lettore). Altra dunque è la strada da perseguire per non perdere più il movimento, forse illusorio forse no, di un’«immagine meravigliosa» che a tratti si prospetta alla fantasia:
Una cosa, una cosa.
Sublime immagine meravigliosa – o
piuttosto non una di quelle
lapalissiane verità che talvolta
basta scoprir da soli per fare poesia?
Più che una cosa forse un movimento.
Ma prima conti in regola cuore contento
spalle coperte morituri morti pretendo:
tempo davanti a me finché ci sia
l’occasione di scriverla in bello stile.
Parlo di un modo poetico d’esser vile
– e la cosa è volata via.
Dunque, la demolizione di sé e l’azzeramento della maschera dell’io istituisce la possibilità di portare sulla scena voci più pure, in qualche modo sciolte dalla loro rappresentazione (dalla ricerca di un rispecchiamento oggettivo). Chi dice io nella pagina non è più univocamente individuabile e, quantunque mantenga caratteri sociali evidenti, il suo valore è appunto assorbito dalla gestualità orale. Siamo di fronte a un teatro della voce che adombra figure sociali sempre più losche, non sempre riducibili a distorte visioni oniriche derivate da disturbi della memoria (basti un accenno al direttore delle poste, all’autostoppista, alle compaesane «stronze» ecc.) – figure che ci riportano ad anni di fermento (Autobiologia viene stampato nel 1969), di profondi contrasti sociali, spesso turbolenti.
Ma anche l’ordine fittizio di un teatro della voce non può resistere a lungo e il teatro si dissolve: «Basta, spettatori, volge al termine l’esercizio», afferma il poeta intravedendo una diversa prospettiva sul reale:
Ecco un punto di vista – ma che
importa il dipingere!
E quell’ozioso se sapessi! No –
ben più proficuo (il corso continuando
dei pensieri) me stesso regredire:
affinché non sul fondo ma io il fondo
essere della fossa essere me
letto liberato dal peso del corpo e
mondo in mutazione col mondo.
In questo desiderio di adesione biologica, e dunque creativa, nel punto di contatto fra sé e il mondo, si attua la decantazione anche delle pulsioni primarie e assistiamo, infatti, a pagine in cui affiora con più veemenza l’eros, lasciando magari al contempo che la demistificazione della donna prosegua in toni più accesi. È un femminino degradato a muovere le presenze di molte poesie, come Cosanesai, dove la donna è oggetto di desiderio e di risentimento: «fu asettica, vitaminica, / per non dire del tutto jemenfoutiste», «sardonica tagliauccelli con risolino di gola», mentre altrove il recupero di profili lungo la corrente della memoria ci riconsegna strani personaggi, come l’«Euridice dai sopraccigli maldepilati», «Ridicola mitologia, / quando ognuno capisce / che tu fosti la mia / giovanile occasione, / sprecata da coglione!», in un testo davvero autodistruttivo nell’accostamento di volgarità e versi melodici; oppure la signora Gemma Alfè, «fiduciaria del capo dei capi», mai considerata allora, quand’era ancora giovane, «sub specie concupiscendi», e ora riapparsa come «un niente […] che si può a piacimento cambiare, / adesso che io sono io tu non sei tu!», forse motivata soltanto dall’ossessione del tempo, che incombe e muta impietosamente anche i miti giovanili e con essi l’intera visione dell’esistenza.
Più teneri omaggi alla figura femminile, nel canto di perdita della giovinezza, sono devoluti ai Tre adattamenti da Puškin, mentre la moglie, assorbita del tutto dalle cure della casa, pare quasi con insensatezza non condividere l’accidia di chi avverte il termine inequivocabile di ogni cosa e continuare nei suoi affanni, serenamente: «Tu // non vuoi vedere cose che incarogniscono intorno, / vuoi che ogni domani sia un primo giorno, / respingi all’infinito la fine», «tu che ti senti immutabile!». Ma le sequenze fondamentali che hanno per tema la femminilità sono indubbiamente i sei brani di La Bovary c’est moi, dove netta affiora la scissione psichica dell’io, voce femminile e autore insieme, che conduce all’annullamento dell’identità a causa di un amore devastante, che evidenza ogni fragilità e oscuro malessere di chi, alla fine, non ha nemmeno «il coraggio di morire d’amore», e anche per questo affonda nella pazzia. Il disgregamento dell’io è qui efficacemente riprodotto nel disordine delle affermazioni, nell’assillo dei ritmi e dei parallelismi, nella esibita e finta risolutezza subito contraddetta dagli ingorghi di pensieri che generano allitterazioni, forzature sintattiche, ripetizioni opprimenti, quasi beffardamente scandite dalle rime, discrete ma ineludibili.
La «regressione» verso il fondo biologico dell’esperienza libera tuttavia anche elementi psicolinguistici volti alla purezza, come si vede nella Ballata della lingua, dove in cadenze liturgiche quasi caproniane si lascia decantare, strofa per strofa, una sorta di invocazione e lode della propria lingua, ripercorrendone le tappe ideali d’evoluzione, scandite da un aggettivo («Mia lingua – italiana», «Mia lingua – innocente», «Mia lingua – puntuale» e così via). Qui si ferma con particolare precisione la nuova condizione poetica, ponendo l’identità, nell’unico binomio che non prevede un aggettivo, fra lingua e vita: «Mia lingua – mia vita / dolcezza flatus vocis che m’hai tradito / tuo servo che t’ho servito». Si tratta in effetti dell’estremo riconoscimento di come il programma iniziale (mettere la vita in versi) si sia ormai ribaltato: ora il poeta cerca la vita nel linguaggio, dichiarandosi servo di quella dama non cercata che ormai prende possesso del suo fedele, per forza di scrittura[3].
NOTE
[1] Vittorio Sereni, Nel sonno, dalla raccolta Gli strumenti umani, in Poesie, edizione critica a c. di Dante Isella, Milano, Mondadori 1995, p. 147.
[2] Eugenio Montale, Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, Mediterraneo, dalla raccolta Ossi di seppia, in Tutte le poesie cit., p. 59
[3] Il riferimento è al titolo della raccolta di saggi, La dama non cercata, che Giudici pubblicherà nel 1985.
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