L’opera orfana dell’autore
Da qualche decennio a questa parte le opere letterarie (i romanzi, le raccolte di poesia) sono castelli di sabbia che resistono appena qualche stagione. Perché? Perché non c’è più una critica letteraria autorevole. Perché il Mercato impone i suoi (dis)valori. Perché i letterati sono monadi e non combattono più nell’agone condiviso. Perché gli sbocchi novecenteschi – esiziali – di ogni letteratura nazionale sono spazzati via dalla cultura globalizzata. Perché la quantità di opere meritorie è oggettivamente esorbitante (ovvero: si muore per eccesso di benessere). Perché non ci sono più destinatari, ovvero una comunità di riferimento. Perché viviamo in un Presente piatto ed edonistico, cioè senza memoria. Perché ogni identità (la letteratura in sé, il lettore, il critico, l’autore, il testo…) è in crisi.
Trovate la spiegazione che più aggrada, ma il dato non cambia: non sappiamo scegliere quali doni tramandare.
Da quando abbiamo dimenticato chi siamo e che cosa vogliamo, questa parrebbe una naturale conseguenza.
A me piace leggere il problema anche in questi termini: tante opere finiscono ai margini perché non identificano più un Autore.
Mi spiego. Un singolo, bel libro, lascia il tempo che trova se non entra all’interno di un Discorso più ampio, se non fa costellazione con altre opere di un Autore (il quale, a sua volta, dovrebbe diventare un nuovo punto luminoso che “fa sistema”, ovvero “ridisegna”, ovvero “riconfigura, reinventa, rinnova” la letteratura stessa).
Attenzione, però. Per Autore non intendo quell’io romantico che titanicamente, lavorando sull’espressione di sé, raggiunge le sfere dell’arte. Non intendo il Genio che porta a sintesi lo spirito del (suo) tempo. Abbiamo un animo informe, e i nostri tempi sono liquidi – così almeno ci insegnano. Quindi, per Autore non intendo la mente che precede l’Opera, ma quel Vuoto – o fantasma, o promessa di identità – che attrae, perché delimita un nuovo campo di senso, che si prospetta come un avvenire possibile o auspicabile… Se le opere, accumulandosi, delineano un percorso, ognuna alla fine ricade su sé medesima, si accartoccia.
La nostra cultura non ci offre possibilità di Sintesi. Viviamo di frammenti, di lampi. Le opere-mondo che tentiamo sono mimesi del caos, e nel caos ricadono.
Forse i libri che possono ambire a rimanere sono anzitutto quelli che delimitano una figura di senso aperta e dinamica, eppure in qualche modo centrata attorno a un nucleo che appare almeno in parte misterioso, non del tutto sondato, eppure dotato di una potente gravità. Di opera in opera un Autore si rilancia, si contraddice, si crea.
Ecco, dobbiamo pensare all’Autore come la figura indefinita che nasce dal congiungimento di ogni singola opera.
E siamo al paradosso: non si può prevedere che cosa si scriverà per sempre. Ogni opera potrebbe contraddire la precedente. Eppure il viaggio potrebbe alla fine chiudersi, come se fosse la traccia di un destino. Anzi, ancora peggio: posso – voglio contraddirmi, perché sono libero e creativo. E questo impulso di libertà non fa che confermare ciò che sono, a mia insaputa.
Un Autore è l’assedio a un vuoto scavato in petto alla Tradizione.
Aprire un varco, significa creare una possibilità per altri, non solo per sé.
Altri non è tutti. L’Autore non è generoso.
Prima di costruire, in ogni caso un Autore distrugge.
Anzitutto, sé stesso.
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