John Keats

Sulla natura del genio

Il poeta è la più impoetica delle creature di Dio, perché non ha identità

Ce lo insegna John Keats in una sua lettera indirizzata all’estimatore Richard Woodhouse:

27 ottobre 1818

Caro Woodhouse,

          La tua Lettera mi ha fatto molto piacere; più per l’amicizia che ci sento, che per il gusto che può avermi dato quello che vi si trova e che generalmente si pensa gradito al “genus irritabile”. La risposta migliore che posso darti è qualche considerazione in stile da contabile su due punti fondamentali, che sembrano due indici puntati proprio al cuore dell’intero dibattito − pro e contro − sulla natura del genio: punti di vista, successi, ambizioni ecc. ecc. Primo − riguardo al Carattere poetico in sé e per sé (voglio dire quella specie di cui sono Parte anch’io, ammesso che io sia qualcosa; quella specie distinta dal tipo wordsworthiano o egoistico sublime; che è una cosa a sé e sta su da sé) non esiste in sé e non ha un sé − è tutto e niente. Non ha carattere − gode sia della luce sia dell’ombra; vive del gusto, che sia bello o brutto, sublime o volgare, ricco o povero, esaltante o mediocre. Prova lo stesso piacere nel concepire Jago o Imogene. Ciò che sconvolge il filosofo virtuoso, delizia il Poeta camaleonte. Non fa mai male, né quando gusta il lato oscuro delle cose, né quando gode del loro lato luminoso; perché in entrambi i casi tutto si risolve in riflessione. Il Poeta è la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha Identità – ne è continuamente in cerca – il Sole, la Luna, il Mare e gli Uomini e le Donne, che sono creature d’impulso − e sono poetiche, c’è in loro qualcosa di immutabile, ma il poeta no; non ha identità − è certamente la più impoetica di tutte le Creature di Dio. Se dunque il poeta non ha un sé, e io sono un Poeta, che Meraviglia c’è se ho detto che non scriverò più? Forse proprio nell’istante in cui lo dicevo stavo già pensando ai Personaggi di Saturno e Ops [Personaggi dell’Iperione]. È una cosa tremenda da confessare; ma è un fatto che nessuna parola che pronuncio può essere presa sul serio come fosse un’idea derivante da una natura fedele a se stessa; e come potrei, se non ho natura? Se sono in mezzo alla Gente e non sono assorto in creazioni del tutto private del mio cervello, non riesco da me stesso a rimirar me stesso: l’identità di chi è nella stanza comincia a premere su di me e in un attimo ne sono come annullato − e questo non mi accade solo con gli Uomini; sarebbe lo stesso con dei bambini. Non so se riesco a farti capire: lo spero − almeno quel tanto che basta perché tu non dia troppa importanza a ciò che ti ho detto quel giorno.

In secondo luogo, ti dirò le mie idee sulla vita che mi propongo di fare. Nutro l’ambizione di fare del bene al mondo: se sarò risparmiato questa sarà l’occupazione dei miei anni maturi − nell’intervallo tenterò di scalare la vetta della Poesia per quanto almeno le forze che mi sono state concesse me lo consentiranno. L’idea ancora vaga di Poemi futuri mi fa andare il sangue alla testa. Spero tuttavia di non perdere l’interesse alle cose umane − e l’indifferenza solitaria che sento di fronte ai riconoscimenti, anche da parte degli Spiriti più alti, non intacchi l’acutezza della mia visione. Non credo che succederà − perché sento che scriverò sempre solo e perché amo e desidero il Bello, anche se dovessi ogni mattina bruciare le mie fatiche notturne e nessuno dovesse mai neppure vederle. Ma anche adesso forse non sono io a parlare: ma qualcuno nella cui anima io vivo. Sono sicuro tuttavia che la frase che sto per dire sono proprio io a dirla. Sono molto sensibile alla tua sollecitudine per me, alla tua stima e alla tua amicizia, e rimango

il sinceramente tuo

John Keats

(da John Keats, Lettere sulla poesia, a cura di Nadia Fusini, Milano, Oscar Mondadori 2005, pp. 130-132)

 

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