Il confine della normalità

Sia detto subito: dalla normalità siamo guariti tutti quanti per tempo. Siamo tutti unici ed eccezionali, nessun paradigma standard giustifica una vita.

Ciò però non deve tramutarsi in una forma di individualismo, in ambito educativo. Quando per esempio accade qualcosa, magari uno screzio, una difficoltà di rapporto, l’insegnante-educatore (in verità, dovrebbe valere anche per il genitore) in quel contesto si interessa di tutte le persone coinvolte, pur riconoscendo la specificità di ciascuna.

L’attenzione spesso esasperata delle famiglie, invece, finisce per imporre un eccesso di azione. La percezione di un ideale confine della normalità, inteso come vigile buon senso intorno alle situazioni educative, si sta pericolosamente, vertiginosamente abbassando.

A ogni minimo problema, il genitore si espone richiedendo un pronto intervento del docente. E non c’è bisogno della recente cronaca che parla di insegnanti sfregiati, malmenati, insultati, delegittimati in tutti i modi, per ricordare quanto alte siano le pretese di giustizia delle famiglie – in un’ottica appunto individualista, ovvero da lex talionis.

Qui le differenze generazionali si avvertono clamorosamente. Io dunque appartengo a quella fascia di persone che è cresciuto con frasi del genere: “Se la maestra ti ha dato una nota, io prima rincaro la dose, poi ti chiedo spiegazioni”; “Cerca di non litigare mai con nessuno, ma se hai problemi con qualche compagno, arrangiati, non chiedere a me di andarmi a confrontare con gli altri genitori sulle tue cavolate”; “Non alzare mai le mani su nessuno, ma se cominciano gli altri con te, vedi di essere tu quello che le abbassa per ultimo”.

Precetti del genere possono sembrare particolarmente duri, ma non stavano solo a significare che ciascuno ha la sua vita e che è bene tenere anche una certa linea di separazione; alla lunga, dietro a questa consegna di responsabilità, si leggeva anche il segno di fiducia nel fatto che ce la si poteva cavare.

Oggi invece basta qualche minima presa in giro, qualche spintarella, qualche litigio intorno alla palla, perché genitori e psicologi arrivino a chiedere interventi, perché il ragazzo risulta sottoposto a pressioni psicologiche eccessive. È la deriva maternalistica della nostra cultura, senza più padri. Il risultato è la fragilità psicologica estrema dei preadolescenti, che poi si tramuta nell’apatia, nella mancanza di rapporto e lotta durante l’adolescenza.

Non ricordo più in quale libro di psicologia ho letto questa storia. Agli inizi della propria carriera da psicologo, l’autore del libro ricordava di un problema piuttosto serio con un paziente che non riusciva a risolvere. Decise di affidarsi all’aiuto del proprio maestro. “Ho un problema…”, e gli spiegò per filo e per segno la faccenda. Il collega più esperto, dopo averlo ascoltato attentamente, sentenziò: “È proprio vero, hai un problema”, e piantò lì l’amico. Il quale, ovviamente, rimase interdetto e risentito dell’episodio, per molto tempo, ma alla fine si trovò ad ammettere che l’inizio della soluzione del problema era partita da lì, da quel riconoscimento, da quella consegna alla normalità dell’eccezionalità di ogni caso.

 

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