La lingua salata di De Andrade
1. Non riconoscere il proprio libro d’esordio, o addirittura tutte quelle prove giovanili che contraddistinguono una vocazione precoce, è un vizio tipico di qualche poeta, il quale rischia così di suscitare un antipatico dubbio di ricercatezza squisitamente estetica, tale da spingerlo finanche a falsificare i dati biografici personali. Invece è quasi sempre una ricerca di autenticità e di purezza d’ispirazione (di ispirazione, si badi, e non necessariamente di stile) a imporre a un autore un ideale di sintesi e di massima densità, cioè di concentrazione fantastica: non una volontà maniacale di decoro letterario, dunque, ma un desiderio di estrema economia.
Direi meglio: di precisione, perché non è detto nemmeno che quel poeta sia destinato a scrivere poco, a scavare ungarettianamente le parole nella vita come un abisso: tutto dipende dal carattere che si sarà formato dopo l’adolescenza e dalla naturalezza di un confronto non forzato, non ansiogeno (identificativo) con la scrittura. La tentazione di “riscrivere” i primi stupiti approcci con la vita sarà inevitabile, dal momento che nessuno si rassegna alla perdita originaria che segna la nostra apertura all’esistente. (Tutto ciò che colpisce la prima volta la nostra coscienza è perso: illeggibile. Solo al secondo radicale impatto ci si accorge che “qualcosa” avviene. Ed è un impatto ristrutturante, una seconda nascita, sempre impura. Soltanto in seguito, ormai vigili e pronti a ricevere ciò che si offre alla coscienza, si potrà accogliere, ri-conoscere una forma del mondo.) Ma reinserire a ogni costo, come spesso tendono a fare i filologi, ciò che pur essendo scritto è – come avverte l’autore – smarrito in sé stesso, risulta una forzatura insensata e profondamente ingiusta. È la vita stessa che ci ha allontanati dall’infanzia, è per fedeltà alla vita che compiamo il destino corrompendolo in altra guisa. È stupido e psicologicamente mortificante restare inchiodati alla presunta innocenza di ogni principio: solo staccandoci restiamo fedeli alla sorgente. Solo a distacco compiuto non siamo più innocenti delle nostre parole, siamo responsabili.
2. In taluni scrittori che per avventura hanno prematuramente giocato con il proprio destino di poeti, una simile ricerca d’essenzialità si traduce in un’opera di costante sfrondamento anche nella scrittura, come se si dicesse la verità solo per via di sottrazione. Come se la forma da riconoscere fosse già lì, nel bianco orizzonte della pagina, e noi dovessimo solo pazientemente circoscriverla, tracciarne il profilo fra presenza e assenza, fra dono e perdita.
L’amputazione di certe parti di sé un po’ ingombranti per stare al passo della vita, e forse addirittura di intere zone della propria memoria, viene talvolta sancita con l’amputazione del nome. Anche a proposito di una scelta simile non mancheranno gli insinuatori di un raffinato snobismo, sempre incapaci a comprendere la leggerezza crudele che si impara soltanto correndo a piedi scalzi, anche sulle pietre aguzze. Ci potrà anche essere un segreto, uno stigma dolente, dietro quella scelta: ma questo, a ben vedere, resta un fatto personale dell’autore, non un motivo di disquisizione letteraria.
3. Ma tutto ciò cos’ha a che fare con Il sale della lingua di Eugénio de Andrade, reso ora disponibile in italiano dall’attenzione critica di Marco Fazzini per il tramite della traduzione del compianto Carlo Vittorio Cattaneo nelle edizioni “Il bradipo”? La ricusazione delle prime opere e l’adozione di uno pseudonimo, che fanno parte anche della biografia dello scrittore portoghese, sono i primi indizi di quella segreta imprimitura che ha reso possibile la dizione naturale e la semplicità nient’affatto ingenua della sua poesia, e in particolare di quest’opera.
Eppure, qualcuno potrebbe osservare che proprio in tale semplicità pulsa più prepotente un erotismo giovanile, di più: adolescenziale, fanciullesco, come nel nostro Sandro Penna. Ed è verissimo: perché appunto la giovinezza è salvata quando ne percepiamo (magari senza farne motivo di dolorosa elegia) il distacco, lo scivolamento dal nostro corpo come una pelle troppo fragile e sensibile all’arsura. L’uscita dalla giovinezza ci permette di riconoscere (reconnaître, quasi un rinascere insieme) la giovinezza del mondo e di restituire così, con soffuso lirismo, la bellezza degli elementi (il mare, la terra), la freschezza di una prima visione delle creature. La parola-corpo del poeta penetra il mondo con desiderio, fa l’amore con le cose, si annulla nel loro primigenio splendore, non si isola in una pretesa autosufficienza letteraria. Il corpo della parola potrà rifulgere di luce propria giusto nella naturalezza di una congiunzione che trascende la sua forma, la realizza bruciandola, la perfettisce in uno spossessamento euforico, non necessariamente travolgente, talvolta dolcissimo. (E viene ironicamente da pensare che tanti siano gli stili letterari quanti i modi di fare l’amore).
4. «Conciliando la saggezza all’innocenza, l’opera di Eugénio de Andrade ha vissuto, quindi, in equilibrio tra le leggi terrene e il richiamo di un “desiderio aereo e luminoso” che la proietta in un’altra dimensione più eterea o musicale, prolungandosi in un tempo senza tempo e in quello che si potrebbe definire un senso dell’infinito creato a partire dal finito, grazie ad un dono che spinge i sensi a volare o a navigare oltre i loro stessi limiti» (Fernando Pinto do Amaral).
È, questa, la sapida semplicità del poeta. Qualche goccia di sangue sulle pietre sarà l’impronta da seguire per ritrovare il sapore delle parole, la musica ondosa di un’infanzia che ci ha lasciato senza immolare un corpo, carezzando appena il nostro con un bacio di sale.
(Immagine tratta da qui)
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