Brullo come San Paolo, eretico e colossale
Davide Brullo è un tarlo che si è insediato subito nel Grande Codice, se ne è nutrito, andando soprattutto a rovistare nelle pieghe recondite, nelle varianti, in ciò che soggiaceva ancora inerte, in attesa di essere risvegliato. Ha perciò iniziato una furiosa attività di traduzione, volta a rigirare la cenere e riattizzare fiamme pericolose e ispirate. Si ustiona con gioiosa santità di eretico da sempre, Davide Brullo.
Così, per esempio, ha scannato i Salmi, esaltato le Lamentazioni e rovesciato la Sapienza; ma siccome una fede senza scandalo è semplicemente morta, lui, senza fede, è arrivato a masticare a suo modo con un romanzo lo snodo più inquietante e profetico del cristianesimo contemporaneo, ovvero la rinuncia di Benedetto XVI al suo ministero – ben prima, tra l’altro, che sullo stesso tema ci scrivesse, con inquietante analogia, anche Sergio Claudio Perroni.
Ora, con il suo ultimo libro (Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro, Melville Edizioni 2018), Brullo inserisce nell’ingranaggio della letteratura mercificata un sassolino, che è poi una perla, che fa saltare i processi produttivi, sospende ogni presunzione di verità, genera problemi alle classificazioni di genere e alle categorie filologiche. E si attesta così su quella linea d’azzardo che potrebbe incenerirlo nell’indifferenza dell’odierna insipienza o, tra cinquant’anni, rendergli ragione come autore di culto, che giganteggiava nell’ombra di un presente insulso.
Esagero? Neanche un po’. Ci metto la faccia, su ogni singolo aggettivo di questa paginetta. E ve lo dimostro nel modo più semplice possibile.
Provate a leggere questi due incipit:
TESTO n. 1
Alle ore sette e quarantacinque della mattina del 7 maggio 1928, il più vicino al telefono della caserma dei carabinieri di Bellano era l’appuntato Misfatti.
Il carabiniere Beola stava ramazzando la camera di sicurezza, il brigadiere Sciannino era assente per una licenza e il maresciallo Ernesto Maccadò non era ancora arrivato.
Quindi rispose lui.
«Carabinieri Bellano, appuntato Misfatti.»
«Ué, Misfa’!» risuonò all’altro capo del filo.
Misfa’?
«Perdonate, ma chi parla?» chiese l’appuntato, voce e mimica scocciate.
«Toscanelli.»
«Toscanelli?»
«Appuntato Toscanelli. Non ti ricordi?»
Pochi secondi, la nebbia si disperse.
«Aaah!» fece il Misfatti mentre l’altro rideva sguaiato e singultando.
Adesso ricordava.
Ma non ci trovava proprio niente da ridere.
5 giugno 1926, festa dell’Arma, messa a Lecco e successivo pranzo presso la trattoria Del Gozzo.
Il Misfatti vi aveva preso parte in rappresentanza della caserma bellanese e a tavola s’era trovato faccia a faccia con quel Toscanelli, chiacchieratore e barzellettiere di conio che non aveva lasciato scampo ai commensali intorno a lui, liberi solo di unirsi nei brindisi alla salute dell’Arma, che erano stati numerosi.
Numerosissimi a dire il vero.
A un certo punto il Misfatti aveva davanti a sé due Toscanelli, uno verso destra, l’altro verso sinistra, senza la possibilità di capire quale fosse quello vero. Pure le chiacchiere del Toscanelli, tetragono agli effetti di vino, grappa e compagnia bella, erano diventate puro suono di voce fino al momento in cui il sonno s’era abbattuto sul povero appuntato, di solito quasi astemio.
TESTO n. 2
Il giorno in cui morì mio padre – il 4 dicembre 1989 – l’esemplare dell’Epistolae Ad Romanos Inchoata Expositio di Sant’Agostino conservato nella Biblioteca di Swansea si gonfiò, scalfito dai tralci d’acqua che crollavano dal soffitto – qualcuno disse che si trattò di un’opera angelica, che l’acqua avesse un profilo d’angelo – e divisero e spalancarono le pagine, simile a bocche di pesci, in attesa di cibo, di onestà. Da lì, quel giorno, sbucò la Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro, lo stesso giorno in cui spirava per sempre mio padre, inghiottito in una tomba che apparteneva alla cappella della famiglia di sua moglie – mia madre – da cui era separato da anni. Mio padre si è suicidato, e il suicidio distilla colpe remote dal cuore dei vivi, dei sopravvissuti. Per questo la famiglia di mia madre aveva voluto compiere il “bel gesto” di offrire uno spazio tombale a chi era così disarmato e povero – mio padre – da non poterselo permettere. Per mia madre, probabilmente, si trattava di una sublime vendetta non mi hai mai voluto in vita, ti avrò da morto, avrà pensato. I suoceri di mio padre, sepolti in quella stessa cappella, vigilavano la sua salma: che almeno da morto non fuggisse. La fuga era il talento di mio padre. Era fuggito dalla prigionia dei genitori sposandosi, era scappato dall’atavica ignoranza degli avi studiando all’Università, aveva lasciato Milano per rifugiarsi tra i libri, dirigendo una biblioteca alla periferia di Torino. Poi fuggì la sua famiglia fondandone un’altra – per poi fuggire anche da quella. Fuggì dal Dio cattolico inseguendo i valdesi, frequentando le comunità di Lanza del Vasto, leggendo i testi sacri al buddhismo, ammirando gli eremiti moderni. Fuggì da tutti, fuggì la vita, infine fuggì da se stesso. Il giorno in cui morì mio padre, l’acquazzone partorì un testo straordinario.
Troppo facile capire in quale di queste pagine precipiti la lingua, sia convocato un destino, si intreccino molteplici universi. Per chi insiste a fare lo gnorri, immaginatevi di trasformare i due incipit in un film. Il primo diventerebbe una scontata fiction di mamma Rai, già bell’e pronta, il secondo invece… Il secondo, invece, pretenderebbe un’apertura di senso grandiosa, ma tutta da inventare.
Fra parentesi, spieghiamo come sono arrivato alla scelta del testo di paragone, giacché qualcuno penserà l’abbia cercato con il lanternino. Ho pensato a qualche libro di successo di questi anni, mi sono guardato nella libreria e non ne ho trovati. Me n’è venuto in mente qualcuno, ma avrei dovuto cercarli in scaffali alti, in doppia fila, e sarebbero sospetti, perché ormai datati. Ho allora pensato di trovare su Internet l’incipit del primo libro di un autore italiano in vetta alle classifiche di marzo 2018. Sono incappato in Una di voi, di Iris Ferrari (Mondadori Electa). Mi sono chiesto chi diavolo fosse. Ho letto le righe di presentazione: «Iris Ferrari è una giovane youtuber che ha iniziato il suo percorso sul web a soli 12 anni nel 2015. Il suo canale YouTube ha oltre 250 mila iscritti. Una di voi è il suo primo libro. “Quella che troverete qui sono proprio io, nella mia semplicità, nei miei momenti sì e in quelli no, una ragazza come voi, con tanti sogni e tanta passione che mette in tutto ciò che fa… una di voi!”.» Non me la sono proprio sentita di cercare un prelievo testuale di certa roba – che poi sarebbe risultato sospetto, nella logica del confronto. Ho cercato dunque un’altra classifica, che metteva in risalto il nuovo libro di Andrea Vitali. Copio e incollo (da qui)
Come sempre avviene quando Andrea Vitali pubblica un nuovo libro i lettori non possono fare altro che correre in libreria a prendere la loro copia. Dopo “La verità della suora storta”, “Nel mio paese è successo un fatto strano”, “Le mele di Kafka”, “Furto di Luna”, “Bello elegante e con la fede al dito” e “Viva più che mai”, “Nome d’arte Doris Brilli” ci porta indietro nel tempo, al 1928, ancora una volta nella mitica Bellano, sul lago di Como, dove il maresciallo Ernesto Maccadò è alle prese con l’indomita Doris Brilli, ricondotta in paese dopo esser stata fermata per schiamazzi e rissa a Milano.
Al testo segue, in bella evidenza, la fascetta:
“Non so quale sia il segreto. Sta di fatto che Andrea Vitali è un raro caso di narratore che mette d’accordo pubblico e critica” (Antonio Gnoli)
Non so chi sia tale Gnoli, ignorante che non sono altro. (Ah già, ma possiamo rimediare subito: ecco di chi si tratta). Ma voi non fate né lo gnorri né lo Gnoli, e buttate nel cesso qualsiasi classifica di vendite, se davvero volete cercare qualche opera letteraria che abbia un minimo di senso, domani più di oggi (se la poesia sopravvivrà).
Ecco, spero che vi basti questa minima prova di comparazione, altrimenti fidatevi di chi, non dovendo scrivere su un quotidiano nazionale di cultura standardizzata, può permettersi di essere franco e di giudicare i testi senza l’interferenza delle credenziali d’autore:
Brullo è uno dei pochi scrittori contemporanei veramente ispirato e avventurato. Gli altri, per la maggior parte, producono semplice letteratura, premasticata. Libri precotti pronti all’uso.
Non a caso, Brullo è essenzialmente un poeta, anche quando si dedica alla prosa (ma per lui la distinzione dei generi ha effettivamente poco senso).
A p. 88 leggiamo:
Pietro ha tradito e continua a tradire il carisma di Gesù; Paolo è considerato un traditore e ha tradito Dio macellando i cristiani (e ha tradito il Dio degli ebrei); Dio ha tradito la propria natura divina incarnandosi. La scrittura è un tradimento della parola di Cristo – particolare e orale – ogni interpretazione tradisce lo scritto. Il cristianesimo tradisce e travia la tradizione ebraica della Torah. D’altronde, il tema del tradimento è alla base del rapporto originario tra Israele e Dio (appena scarcerato dall’Egitto il popolo tradisce il padre per un vitello; l’Eden è barattato con un frutto): «come Adamo hanno violato il patto; ecco, mi hanno tradito» (Os 6,7). Sembra che per esistere Dio abbia bisogno del tradimento della sua creatura. Poiché può tradirlo – e minimizzare la divinità – Dio ama l’uomo.
Non capite? Continuate a essere fedeli all’ovvio, allora. Rassegnatevi all’eterna ripetizione di un senso vuoto.
Altrimenti, cercate la poesia, il suo reiterato tradimento di se stessa. Rischiate la profezia. Stendete, sulla spinta di un’opera imprudente, il pensiero sull’abisso.
Dio, se esiste, ama Brullo e ne abita le scritture eretiche e sante, eremitiche e colossali.
“I tralci d’acqua che crollavano dal soffitto…”: chiunque possa (pensare di) scrivere una simile puttanata, risibilmente pomposa e gonfia di Ego, reputando, per di più, di aver partorito chissà quale alata e poetica immagine, meriterebbe di finire honoris causa nella rubrica: “Ma che cazzo stai a scrive?” (citofonare Pippo Russo).
Che poi tale prosa/fuffa provenga da un baciapile teocon, invasato e narcisista quale il Brullo, al cui confronto Langone pare il coordinatore nazionale dell’UAAR, non fa che completare il mediocre quadro…
E’ meraviglioso come chi, trincerandosi dietro l’anonimato, ricolmo di invidia e ignoranza vada a cercare la propria, irragiungibile, vittima per poterle vomitare addosso odio e livore. Ma il tentativo rimane tale: il vomito non arriva all’uva, ma va a finire sulle proprie scarpe. Chiunque sia l’anonimo di cui sopra, non vale un laccio di una scarpa. Di Davide Brullo.