Narrativa d’oggidì: Laura Pugno
Mentre crollano i tabù, Laura Pugno scrive, con la poesia nel sangue e la voglia di sperimentare, aprendo nuove strade con il machete della fantasia
Perché scrivi?
Più che il perché, credo che conti il come. Posso dire che è una cattiva abitudine che ho fin da piccola.
Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?
Domanda che andrebbe circoscritta. Parliamo della narrativa italiana? Allora direi due elementi, una particolare attenzione alla storia in sé — la “macchina” narrativa deve tenere — e fino a ieri, l’elemento fantastico. Dico fino a ieri perché nel mio ultimo romanzo, che sto ancora finendo di scrivere, il fantastico o sovrannaturale è assente.
Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani.
Secondo me la narrativa di ricerca, e il romanzo in particolare, tratta sempre dei tabù della propria epoca, nel momento in cui questi cominciano a cadere; di ciò che solo adesso ci sembra possibile pensare.
Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.
«Samuel salì sulla piattaforma che sovrastava le vasche e aprì uno degli armadietti. Si tolse la tuta col logo western standard della yakuza – una y stilizzata in un cerchio denso, che sembrava tracciata col sangue – e indossò la muta di neoprene. Il bordo vasca era deserto, non c’era nessun altro nell’allevamento. Con l’epidemia di cancro nero, c’erano stati tagli al personale. Erano rimasti solo due sorveglianti, Samuel e Ken’nosuke, che lavoravano su turni, i tecnici veterinari e gli addetti alla macellazione della carne. Quello era uno degli impianti più piccoli, uno dei primi. C’erano stabilimenti più grandi e moderni in altri punti della riserva marina yakuza. La monta delle sirene stava per iniziare. Subito dopo, dal pannello di controllo del sistema di svuotamento delle vasche, Samuel avrebbe attivato il ricambio dell’acqua. Era una delle cose che gli piaceva fare. L’acqua dell’oceano entrava con un risucchio e un gorgoglio. La griglia di filtraggio ne regolava la potenza, permettendo un’osmosi dolce e controllata tra mare esterno e mare interno, ma se Samuel avesse commesso un errore, se non avesse fatto incastrare perfettamente la griglia nel quadro a cerniera, la furia dell’acqua avrebbe spazzato via tutto. Allo stesso modo l’oceano spazzava le piattaforme esterne degli allevamenti nella riserva yakuza al largo della costa della Nuova Baja California, nelle acque di Underwater, dove nessuno, e soprattutto non il governo dei Territori, avrebbe potuto scoprirli, e certamente non avrebbe avuto voglia di mettersi lì a controllare cosa facevano gli yakuza nelle loro riserve. Non con l’epidemia di cancro alla pelle – cancro nero, sole nero – che divorava la popolazione. Se Samuel avesse voluto distruggere tutto, poteva farlo. Questo pensiero gli era di grande conforto. Sadako era morta l’anno prima, a diciassette anni. In piena estate, quando il cancro nero è più feroce. Lo chiamavano cancro ma era qualcosa di più di una proliferazione impazzita di cellule. Era, almeno così diceva il Mermaid Liberation Front, il giudizio di dio per quello che la specie umana aveva fatto alle sirene. Samuel aveva dei dreadlocks biondi lunghi fino alla vita. Il giorno in cui aveva iniettato l’eutanasia a Sadako, si era rasato a zero. Sadako non avrebbe voluto questa forma di omaggio. Un cranio rasato significa cancro nero quasi certo, cominciando dalla testa, soprattutto in un fototipo I. Ma Sadako era morta.
Sotto, nella vasca, i maschi di sirena coprivano le femmine.»
L’inizio di Sirene, il mio primo romanzo (Einaudi, 2007).
Come si forma un’opera nella tua officina?
Con una lunga e lenta elaborazione interiore, mentale, e poi con un lavoro di costruzione del testo, che è diventato, con l’esperienza, sempre più dettagliato. Non comincio a scrivere se non ho lo schema completo del libro, capitolo per capitolo. Poi si possono sempre avere sorprese lungo la strada.
Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?
Mi preoccupa la riduzione della biodiversità letteraria, soprattutto per quanto riguarda la poesia.
La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…
Rispetto al mio primo libro di prosa, Sleepwalking. Tredici racconti visionari (Sironi 2002), Andrea Cortellessa parlò di “installazioni”. Più volte ho usato io stessa questa definizione per descrivere la mia scrittura, pre-narrativa, di allora.
(L’immagine è tratta da qui)
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