Narrativa d’oggidì: Flavio Santi

Tocca a Flavio Santi portarci all’interno della propria officina. Dopo Omero, sostiene, nessuno può pretendere di esorbitare rispetto alla propria realtà contemporanea.

Perché scrivi?

Perché andare in analisi costa troppo.

Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?

Nessuno, per carità. Dopo Omero non siamo che umili garzoni di bottega.

Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani.

Concretizziamo: indico una dozzina di libri più o meno recenti che ritengo importanti, perciò modelli da seguire: Le particelle elementari di Michel Houellebecq, Domani nella battaglia pensa a me di Javier Marias, Due vite di Vikram Seth, World War Z. La guerra mondiale degli Zombi di Max Brooks, Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forest, Scuola di nudo di Walter Siti, Fiona di Mauro Covacich, Cani del nulla di Emanuele Trevi, Tuttalpiù muoio di Edoardo Albinati-Filippo Timi, Dalia nera di James Ellroy, Pastoralia di George Saunders.

Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.

Da Aspetta primavera, Bianciardi. La vita agra 2.0:

«Il più che Bianciardi del nuovo millennio, chiamatelo anche SuperBianciardi o ExtraBianciardi o UltraBianciardi o Di-a-da-in-con-su-per-tra-fra-Bianciardi, chiamatelo un po’ come volete, questa specie di moderno Frankenstein con lembi del cervello di un laureato in lettere, uno in lingue, un dottorando, uno scrittore, un traduttore, uno studioso, un critico, o forse più semplicemente un Fantozzi plurititolato ma plurisfigato, non si ferma alle traduzioni e alle varie collaborazioni editoriali (prefazioni, postfazioni, bandelle, alette, bretelle, pulegge, pontili, tramezzi, putrelle), rigorosamente sottopagate. E no. Costui raccatta tutto ciò che ha a che fare con la scrittura, in una specie di febbre quasi mistica. In verità è una febbre da coglioni».

Come si forma un’opera nella tua officina?

C’è un’idea iniziale, che si può presentare sotto qualsiasi forma: un sogno, una frase, un’immagine, un incubo, un “come se”, una notizia storica ecc. Da lì comincia la fatica fisica: almeno quattro-cinque ore al giorno alla scrivania, davanti allo schermo ipnotico del computer a immaginare, costruire, decostruire, perfezionare altre vite, altri mondi, gli altri e l’altro da sé. La disciplina e la costanza sono i veri profondimetri di un romanzo. Oltre a una buona dose di schizofrenia. Anzi, tanta, tanta schizofrenia.

Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?

Vendere di più. Intendiamoci: non per una questione di soldi (ho davvero pochissime esigenze, mi va bene una “esistenza libera e dignitosa” come recita l’art. 36 della Costituzione), ma perché coltivo l’utopia di una letteratura pervasiva e invasiva della società. (Naturalmente il termine “vendere” è biecamente brutale e strumentale: va bene anche incrementare i prestiti dei miei libri nelle biblioteche, la circolazione delle fotocopie, i download dei pdf ecc.)

La critica più intelligente che hai ricevuto, diceva che…

Da un forum su internet, parlando dell’Eterna notte dei Bosconero: «Pensavo che fosse un boiatone, invece mi sono ricreduto». Be’, non credo che sia la critica più intelligente, ma è certamente un bel segno di vitalità, perché si sporca con le categorie basiche dell’Esistente. Vorrei che a governare il bisogno di leggere ci fossero le stesse spinte primarie dei gesti essenziali della vita come mangiare, dormire, fare sesso ecc. Come dice Philippe Forest: «l’arte non è niente se non si riconosce inferiore alla più piccola delle cose viventi cui altri la preferiscono».

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