Antonella Cilento

Narrativa d’oggidì: Antonella Cilento

L’opera mira all’assolutezza, ma occorre essere disposti a tentare e tentare, ci insegna Antonella Cilento, perché la semplicità è conquista faticosa

Perché scrivi?

Perché da bambina non potevo parlare. Perché sono invasa da sensazioni e parole. Perché davvero non so fare altro (anche se faccio molte altre cose, fra cui insegnare a scrivere e organizzare eventi letterari, tutto a patto che la scrittura c’entri in qualche modo). Perché sono innamorata della bellezza. Perché ho le tasche piene di storie. Per respirare. Perché quando scrivo sono migliore. Perché sono innamorata della vita. Perché volevo diventare una pittrice, ma scrivo meglio di come disegno. Perché ho contratto la malattia della caverna magica da piccolissima e non so starne lontana: ogni libro, ogni frase, ogni più piccola sensazione s’ingigantisce e mi fa sognare. Perché ho trascorso la maggior parte del mio tempo senziente a leggere. Perché è la fatica più grande, meno riconosciuta e più indispensabile (a me). Perché sono azzurra, perché esisto inventando.

Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?

Mi riconosco pochissimo in quel che si scrive oggi in Italia. Ho iniziato a scrivere (e continuo) a causa di tanti libri e di alcune autrici (Ortese, Banti, Ramondino) e mi piacciono oggi Per Olov Enquist, Maria Attanasio, Stèphane Audeguy, José Saramago. So di avere intrapreso una direzione che mi porta verso una sintesi differente dalle forme maggiormente in voga, magari rischiosa. Magari fallirò. So che m’interessa mettere insieme alcune suggestioni — e molte vengono dalle arti visive — e un modo di raccontare che sia al tempo stesso semplice in apparenza, leggero nella forma ma molto lavorato, perché la semplicità è un risultato. M’interessano le storie delle persone e come si intrecciano fra loro, anche in modo complesso. Mi interessano le strutture, mi interessa l’opera. Cerco l’opera come forma definitiva, ma sono disposta a produrre molte prove. Sono disposta a tentare.

Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani

La capacità di pensare al di fuori di ogni moda, tendenza, annusamento d’aria mediatico. Fuori da ogni influenza di mercato, da ogni idea precotta sul romanzesco e sulla funzione della scrittura. Penso alla leggerezza e insieme alla profondità, all’Ariosto, a Cervantes, a Stevenson, a Bulgakov. Strutture ambiziose che rispondano solo della naturalezza della vita.

Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.

«Ho iniziato a scrivere questo libro quando Nina, pochi mesi dopo, è morta. I morti ci seguono, sono la nostra coda di drago. Ci spingono, ci trattengono, se ci voltiamo scompaiono.

Ognuno di noi è come Orfeo.

Poiché non sapevo abbastanza di Nina e l’avevo tanto amata, poiché non saprò mai abbastanza di Maddalena, sua sorella, o dei miei genitori – dei nostri genitori non sappiamo mai abbastanza – li ho cercati come fossero personaggi di una storia. E altri se ne sono aggiunti alla mia coda: fantasmi, ombre, persone. Questo non è un libro di famiglia perché il passato è inventato e il reale si confonde con la fantasia, perché ci sono verità che possono essere dette solo così e perché ogni memoria è gratuita. Fra i personaggi che non hanno vissuto nella realtà ma solo nella mia immaginazione e quelli che ho incontrato di persona non so più distinguere e non m’importa: ognuno è a malapena il suo stesso libro.»

(da Isole senza mare, Guanda, 2009)

Come si forma un’opera nella tua officina?

Scrivo ogni giorno, senza speranza e senza disperazione come diceva Karen Blixen, e conservo decine di quaderni con le scritture quotidiane. Non sempre scrivo cercando il racconto o il romanzo, scrivo in un eterno, infinito laboratorio. Ogni tanto da questo laboratorio un’immagine, un personaggio o un luogo si staccano e mi ossessionano. Tornano e tornano, si accumula attorno a questo piccolo nucleo un’immensa mole di materiale e per aggregazione lascio che tutto quel che vivo si attacchi all’idea, le parole, gli incontri, le letture, i viaggi. Inizio a fare progetti edilizi su quell’idea: a volte si tratterà di una casetta o di un villino, altre volte mi accorgo che nascerà una città. Quando l’idea è stabile inizia la documentazione e a volte dalla ricerca documentaria, sia che si tratti di una storia ambientata in tempi lontani sia che accada oggi la ricerca

avviene comunque, partono nuove linee, che rivoluzionano la scrittura o distruggono l’idea iniziale. Lavoro per anni. Isole senza mare, che è il romanzo citato prima, è nato nel 1998 ed è finito nel 2008. Una lunga notte ha avuto cinque anni di lavorazione. Neronapoletano due. I racconti de L’amore, quello vero sono stati raccolti in oltre quindici anni. Ma sono anche rapidissima nell’esecuzione: le scritture giornalistiche o i reportages o i pamphlet possono rubarmi pochi mesi o un anno. Tuttavia, sono ossessionata dalla riscrittura. Mi pento sempre di non aver riscritto abbastanza. Isole senza mare occupa con le sue versioni due scaffali della libreria di casa. Sono un pelino esigente…

Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?

Ogni scrittore credo desideri aver fortuna in vita. Non ho avuto finora molta fortuna, quel che ho ottenuto me lo sono strappato con il mio lavoro, con le unghie e con i denti. È un cruccio esteriore, dunque. Riguarda il riconoscimento cui ognuno di noi aspira. Invece per la scrittura non ho crucci se non giganteschi: sono al primo gradino di una scala immensa, ho ancora talmente tanto da imparare su come scrivere… Mi rassicura solo sapere che lo farò sempre, per tutta la vita, comunque vada. È il mio strumento di conoscenza, mi è indispensabile.

La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…

Eh, sarebbe bello avere critiche intelligenti nell’Italia d’oggi… sarebbe bello avere una critica con cui confrontarsi… Se ne sente la mancanza. Inutile citare bei complimenti o rischiose affermazioni sulla bontà di quel che scrivo: ce ne sono, ma faccio piuttosto un appello a che la critica, impegnata in dibattito in questi giorni, oltre a far spazio fra ciò che non piace, indaghi nuovi canoni, s’interroghi sul nostro lavoro. Non è il mercato che decide cosa resterà e per cosa stiamo lavorando.

(L’immagine di copertina è quella del sito dell’autrice)

 

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