Narrativa d’oggidì: Andrea Di Consoli

(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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Per Andrea Di Consoli (di cui apprezzai in particolare Il padre degli animali) scrivere significa scavare nel sottosuolo psichico, culturale e corporale

Perché scrivi?

Certe volte imbratto tele, ma mi accorgo che non trovo una strada, una forma, e quindi lascio perdere. Mi piacerebbe “torturare” attori come regista teatrale, ma non è mai capitata l’occasione. Anche stare dietro a una cinepresa mi piacerebbe, ma non sopporterei le distrazioni della produzione, i cinismi dei cinematografari. Perciò scrivo furiosamente. E la cosa che mi piace di questo mio scrivere è la sensazione di scavare nel mio sottosuolo psichico e culturale e corporale. Ecco, ti rispondo così: scrivo perché fondamentalmente ho la struttura psichica e fisica per combattere in guerra, o per vivere in epoche buie e difficili. Invece vivo in un’epoca di pace, e questa stasi forzata crea un accumulo insostenibile di memorie inconsce e di energie inespresse che poi diventano scrittura. Tutto qui.

Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?

Una profonda dimestichezza con la tradizione letteraria, dalle Origini, dal Duecento, all’Ottocento. Il nutrirmi di sintassi e parole complesse e vertiginose, penso a Boccaccio, a Tasso, a Guicciardini. E poi il mio assurdo dialogare con i morti, con le assenze, con un Dio torturatore, coll’Antico Testamento, insomma. Non racconto storie, o almeno non faccio solo questo. Eppure non amo neanche i giochi di parole, l’ironia, la stupida ironia. Sono uno scrittore che corre nottetempo, come il licantropo del romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo. Ecco, sono uno scrittore-licantropo.

Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani

Il capolavoro è impossibile nell’epoca dell’arte di massa e dell’arte a mosaico, nel senso che ognuno scrive solo un capitolo di un Grande Libro che si scrive collettivamente. Il capolavoro è possibile solo quando un’epoca è muta e uno solo la racconta, uno solo ha la possibilità di parlare. Tutti quelli che scrivono aggiungono un capitolo. L’opera omnia di ciascuno di noi è solo un piccolo capitolo del Grande Libro, inutile, dico io. Ho imparato ad accettarmi come uno dei tanti che scrivono un solo capitolo. Il capolavoro di domani, per me, sarebbe la venuta del Messìa.

Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’ idea del tessuto: autocìtati.

Non ho copie dei miei libri a casa. Li regalo agli amici che vengono a trovarmi. Prima o poi dovrò decidermi a conservarli da qualche parte. Perciò non posso autocitarmi.

Come si forma un’opera nella tua officina?

Un mondo monta, cresce, sosta dentro di me per anni. Poi cerco di tirarlo fuori rapidamente, come un fuoco di cui mi voglio liberare. Non amo scrivere. Non ho molta pazienza. Sono un fuochista che ama appiccare fuochi, ma poi si stanca di portare legna da ardere.

Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?

Ho paura di non aver amato né i critici del mio tempo né i lettori del mio tempo. Temo di essere superbo, di essermi ostinato a fare una strada solitaria, lontana dai riflettori. Spero e confido in un giovane che sappia — fra mille anni — scovarmi in un angolo di libreria, e poi amarmi, capirmi. Non mi sento capito, ecco tutto.

La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…

Cordelli, sì, Franco Cordelli. Parlava, a proposito del rapporto tra padre e figlio del mio romanzo Il padre degli animali di un dialogo sublimato tra Piccolo e Sinisgalli. In quell’intuizione c’era qualcosa di grandioso.

 

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