Alessandro Zaccuri

Narrativa d’oggidì: Alessandro Zaccuri

Attenzione: quando Alessandro Zaccuri parla di elogio dell’esistente, non parla affatto in nome di un atteggiamento rassegnato. Si scrive per fare chiarezza…

Perché scrivi?

Perché è quello che ho sempre voluto fare e che, in un certo senso, ho sempre fatto. Da bambino volevo già diventare scrittore, poi crescendo mi è venuto il dubbio di non essere capace. Allora mi sono rivolto alla critica, addirittura alla filologia (ho una laurea in letteratura latina medievale, che è un campo eccellente per misurarsi con manoscritti, varianti e cultura materiale della parola). E così arriviamo alla fine degli anni Ottanta, quando, dopo quasi un decennio di collaborazioni a riviste e rivistine, divento giornalista, ossia uno che scrive per mestiere. Ottima scuola, la redazione di un quotidiano, almeno per me. Si impara a scrivere in un tempo dato e in una misura predefinita, ci si può mettere alla prova ogni giorno, portare a termine piccoli esercizi di stile senza che nessuno se ne accorga. Nel frattempo continuavo a prendere appunti, ad abbozzare progetti. Attorno al 2000, quando mi sono deciso a fare il salto, mi sono accorto che potevo tornare in contatto con il tipo di scrittura che avevo sperimentato da ragazzo, nel periodo in cui mi applicavo principalmente alla poesia. Ho ritrovato un rapporto con le parole che porta alla chiarezza. Non a “dare un senso” a ciò che accade, perché il senso preesiste alla scrittura, che deve semmai imparare a riconoscerlo, amarlo e accettarlo. Il motivo vero della scrittura, per quanto mi riguarda, lo ha definito una volta per tutte Auden: il compito della poesia, diceva, consiste nel «lodare tutto ciò che può, per il fatto che esiste e che accade».

Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?

Una certa dimestichezza con la complessità della tradizione, direi. La consapevolezza che il romanzo non è una forma data, immutabile, ma si è costituito nel corso del tempo attraverso errori e tentativi. Oggi si è diffusa la convinzione che la narrativa sia una questione di tecniche ben assortite, di morfologie correttamente declinate. Usa l’io narrante, perché aiuta il lettore a identificarsi. Adopera la struttura del giallo, del noir, della detective story, perché tiene viva l’attenzione. Se c’è un lui e una lei, ci vuole l’altro. Costruisci i personaggi per varianti paradossali: il pittore daltonico, l’attore balbuziente, l’afroamericano albino, il supereroe con superproblemi. E via di questo passo. Funziona? Certo che funziona, solo che a me  non interessa. Mi guardo indietro e mi accorgo che i grandi romanzi in cui mi riconosco hanno sempre, al contrario, qualcosa di sbagliato, non rispettano le convenzioni, si allontanano dalle scorciatoie. Moby Dick, anzitutto. Poi Guerra e pace, dove la virata verso l’epica è talmente brusca che Tolstoj, quando vuole, può permettersi di ricorrere al “romanzesco” più inverosimile. Quasi tutto Dostoevskij. E i polizieschi di Friedrich Glauser o di Dürrenmatt, nei quali manca sempre qualcosa rispetto a quello che troveresti, per esempio, in Agatha Christie o nello stesso Simenon. Ecco, per me lo scarto necessario è questo.

Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani.

Dopo l’elogio della complessità, la ricerca della semplicità. La prima riguarda il linguaggio, la struttura, e ne abbiamo già parlato. La seconda attiene al contenuto, alla necessità originaria per cui una storia viene raccontata. I due elementi devono andare di pari passo, perché altrimenti intervengono processi di semplificazione, che sono il contrario della semplicità. Provo a spiegarmi: solo se padroneggio la complessità del reale riesco a individuare le linee di forza che lo sorreggono e, a quel punto, mi rendo conto che sono linee semplici. Il Giudizio Universale di Michelangelo è un affresco estremamente complesso, ma diventa intelligibile, quasi trasparente nel momento in cui mi soffermo sulla semplicità dei gesti del Cristo (il braccio destro che solleva i salvati verso il Paradiso, il braccio sinistro che sbarra la strada ai dannati sprofondandoli nel baratro dell’Inferno). Ma se credo che un quadro sia troppo complicato per la mia e l’altrui comprensione, allora sarò tentato di semplificare, di isolare un’immagine dall’altra in modo arbitrario, di ridurre la struttura a ornamento. La mia impressione è che molta narrativa di oggi proceda per via di semplificazione, tagliando fuori porzioni di realtà che, per un motivo o per l’altro, sembrano di troppo. È il motivo per cui, da un po’ di tempo in qua, poche storie risuonano di una semplicità originaria. Moby Dick (insisto) è una storia semplice, ma di una semplicità talmente profonda, abissale, da richiedere un’architettura grandiosa. Nella sua semplicità l’ossessione di Achab è così potente che per contenerla occorre un libro smisurato.

Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.

«Che nella zona riservata del Deposito brulicasse un numero imprecisato di animali e parassiti era un’altra ovvietà che non ci si era mai dati pena di smentire. Bruno sapeva che dietro le muraglie compatte di libri scorrazzavano topi e fornicavano blatte, prosperavano cimici e banchettavano i tarli, le camole, nuotavano indisturbati i trasparenti pesciolini d’argento che, prima della bonifica imposta dall’istituzione del Deposito, ogni bibliofilo era incline a tollerare come un minuscolo male necessario, un innocuo effetto collaterale dell’imperio stabilito dalla carta.

«In alcuni Paesi la situazione era molto più grave. Il Deposito di Montevideo era rimasto chiuso per almeno due anni, dopo che un gruppo di visitatori era stato assalito da un branco di cani più simili a lupi che a randagi. Una nuova razza di gatti, pressoché priva di pelo, si era impossessata per qualche tempo del Deposito della Valletta, mentre i pipistrelli nidificavano stabilmente tra gli scaffali di Phnom Penh. Notizie come queste erano divulgate con parsimonia, non esattamente censurate, ma sempre ridotte al rango inferiore di curiosità locali. E tuttavia in nessuna zona riservata di nessun Deposito del mondo erano attive le telecamere di vigilanza. Non esisteva documentazione di ciò che accadeva lì dentro, non si conservavano registrazioni. Nelle reti telematiche era circolata più volte l’immagine di una creatura simile a un gorilla fotografata da un visitatore nel Deposito di Kinshasa, ma l’interpretazione corrente era che si trattasse di un falso, realizzato tra l’altro in modo grossolano. Rispetto a leggende di questo tipo, gli scarafaggi in cui Bruno si era appena imbattuto costituivano, in fondo, una compagnia più che accettabile.» (da Il Deposito, 40kbooks.com, 2010)

Come si forma un’opera nella tua officina?

Per via di riflessione, anzitutto. Prima di scrivere un libro, ci penso molto. Non mi concentro tanto sullo svolgimento della trama, ma sul tono generale, sulla temperatura della lingua e delle emozioni. Contestualmente, mi documento, studio, leggo, ascolto musica e guardo film. È un processo che può essere più o meno lungo, a seconda dell’argomento. Il signor figlio, che metteva in scena colossi come Leopardi, Kipling e Messiaen, ha richiesto molto lavoro di ricerca. Per Infinita notte, che è ambientato a Sanremo nei giorni del Festival della canzone, il percorso è stato decisamente meno convenzionale. Preparo schemi, ma ancora una volta non della trama: schede di lettura, piuttosto, diagrammi dei rapporti tra idee e personaggi, ogni tanto qualche disegno. Una volta che il romanzo è avviato, ho l’abitudine di addormentarmi la sera pensando a quello che scriverò il giorno dopo. In generale, non inizio mai a lavorare se prima non rileggo un po’ del lavoro precedente. Niente musica di sottofondo. Al mattino, abbastanza presto, scrivo. Di sera, quando posso, rileggo e correggo.

Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?

L’aver dato l’impressione di essere un autore esclusivamente letterario, creando in alcuni lettori l’aspettativa di altri libri che, come Il signor figlio e prima ancora Milano, la città di nessuno (ispirato alla figura di Luciano Bianciardi), abbiano per protagonisti scrittori del passato, in un intreccio continuo fra critica e invenzione. Penso di riuscire abbastanza bene in questo genere ma, proprio perché è un genere, non è quello in cui voglio riuscire. Sono convinto che la letteratura, ancora oggi, non debba accontentarsi di celebrare sé stessa attraverso un processo illimitato di allusioni e citazioni. Il signor figlio non era affatto un monumento all’erudizione di Leopardi.  Semmai, tentava di rappresentare il momento in cui l’edificio delle conoscenze di Giacomo vacilla e crolla. Non è mai il sapere che salva, tanto meno il sapere della letteratura. Il vero argomento dei miei libri, dal mio punto di vista, è il corpo a corpo tra l’uomo e la grazia, l’assurda battaglia mediante la quale molti di noi si ostinano nell’opporsi alla propria salvezza. Per raccontare questo a volte serve smontare lo Zibaldone, altre volte sono più importanti le canzonette di Sanremo.

La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…

… una trama in apparenza laterale di Infinita notte rappresentava in effetti il cuore del romanzo. Era una storia a cui tenevo molto, perché era vistosamente “sbagliata”, non obbediva a nessuna delle regole alle quali si ricorre abitualmente per raccontare la passione extraconiugale, sembrava una spy story e invece si consumava nel nulla. Qualcuno ha osservato come in questa ambiguità risultasse evidente l’ambizione di ricollegarsi ai narratori come Graham Greene o François Mauriac, i massimi cattolici narratori del Novecento. Non avevo il coraggio di ammetterlo, però era proprio quello il risultato al quale stavo mirando.

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