La strada: Binaghi indica il capolavoro di oggi

Narrativa d’oggidì: Valter Binaghi

Valter Binaghi, morto nel 2013, ci ha suggerito senza indugi il capolavoro di oggi: un titolo che mescola tragedia ed epica…

Perché scrivi?

Posso dire perché ho cominciato. La mia “vocazione” non è squisitamente letteraria, ma piuttosto di filosofo prestato alla letteratura. Ho la netta sensazione di vivere in una civiltà in declino, ma anche di avere qualche ipotesi di ricostruzione, soprattutto sul piano pedagogico cioè della formazione della coscienza individuale. Il discorso tecnicamente filosofico, però, è affogato da cinquant’anni in un citazionismo fine a se stesso e nella più totale assenza di ispirazione metafisica. E allora ho provato a costruire delle rappresentazioni allegoriche del male morale e della conversione dello spirito alla libertà. Così sono nati i miei primi romanzi. Oggi ho raggiunto una certa padronanza artigianale del mezzo, mi concedo anche qualche divertissement, ma resto fondamentalmente legato a un’idea di scrittura come forma di esplorazione e conoscenza.

Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?

La dimensione metafisica e storica. Non ho alcun interesse per il minimalismo dominante. Detesto la riduzione del personaggio alla sua dimensione sociologica (il romanzo del precario, il romanzo del giovane, il romanzo del deviante, la letteratura “al femminile”), ma anche lo stilismo fine a sé stesso dei redattori di «Nuovi Argomenti». Due modi apparentemente opposti di disertare la complessità e la profondità dell’uomo integrale e la tremenda serietà dell’arte.

Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani

Ti indico l’ingrediente fondamentale del capolavoro di oggi: La strada di Cormac Mc Carthy. Ammettere la dimensione tragica dell’esistenza del singolo senza scadere nella sua caricatura minimalista, pretendendo un orizzonte epico per una generazione che abbia memoria del passato e si imponga di garantire un futuro.

Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.

«Il tossico che si è venduto tutto per la roba (prima i dischi d’epoca, i libri, i vestiti, l’orologio, la catenina della prima comunione, perfino i mobili, e poi i gioielli della madre che l’ha buttato fuori, adesso dorme in una casa occupata su un materasso bisunto, dall’altra parte della parete una coppia di disperati come lui, loro almeno stanno insieme ma non scopano mai, li sentirebbe) il tossico è la sceneggiatura parodiata da un demone della parabola del Vangelo (ricordate? quella del mercante che trovata la perla preziosa vende tutto ciò che ha per averla).
L’eroina è il paradiso zippato in 2 cc della società dei consumi e il suo appetito insaziabile è il cattivo infinito di Hegel, lo sberleffo alla ragioneria dei piaceri di Epicuro e la dimostrazione lampante dell’esistenza di Dio.
La giornata del tossico è interamente consacrata all’inflessibile teologia del veleno: fin dal primo istante del risveglio, anzi prima ancora, dal piombo delle membra indolenzite, dalle termiti invisibili che rosicchiano gli alluci, l’ultimo lembo di sogno si è già fatto preghiera: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Per questo, mentre voi scribi e farisei affidate a polizze assicurative e fondi d’investimento il vostro futuro, egli vi precederà scalzo nel Regno dei Cieli.»
(Da: Devoti a Babele, Perdisa Pop 2008)

Come si forma un’opera nella tua officina?

Non sono un buon osservatore. Difficilmente la mia “visione” iniziale parte da incontri o esperienze personali. I miei romanzi sono episodi di una parabola che nasce dall’interno, una sorta di fenomenologia dello spirito che non segue un disegno prefissato ma si chiarisce via via e cerca ogni volta l’immagine per avanzare di un passo: la trova in aspetti della condizione umana che assumono un carattere metaforico, e possono essere molto distanti tra loro. Ad esempio i miei due prossimi romanzi in uscita presentano come protagonisti un giocatore d’azzardo e un tranquillo professore con figlia adolescente. Una volta “vista” la scena primaria, mi do tempo un mese per dettagliare una scaletta dei capitoli e sei mesi per scrivere il romanzo. Poi un mese di pausa, dove nemmeno apro il file e faccio altro. Quindi lo riprendo, lo rileggo e correggo quel che mi suona stonato.

Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?

Essere entrato nel mondo dell’editoria nel decennio del “noir”, che ha fagocitato la narrativa e irretito gli operatori del settore (editor, agenti, librai) costringendo a spacciare per romanzi di genere tutto quello che si voleva vendibile a un pubblico più ampio degli estimatori di Gadda e Manganelli. L’equivoco ha coinvolto pure me, i miei primi romanzi sono stati presentati in questo modo e faccio fatica a liberarmi dall’ipoteca.

La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…

«La battaglia prosastica di Valter Binaghi è contro la potenza del simbolo o, meglio, contro l’imbecillità umana che non avverte il simbolo come via interiore, come veicolo di Grazia e amore, per ricondurre se stessi a se stessi e, quindi, agli altri.» (Giuseppe Genna)

 

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