Kung Fu Panda e l'ingrediente segreto

Narrativa d’oggidì (2)

Qualche spunto di riflessione conclusivo

Abbiamo voluto, con questa inchiesta, giocare un po’, consapevoli della serietà di ogni gioco. Con un approccio più lieve del solito, abbiamo dato udienza ad alcuni narratori. Il campione scelto non ha alcuna pretesa di rappresentatività, anche perché era evidentemente sbilanciato a vantaggio delle voci più nuove del panorama odierno. Ciò non significa affatto che sia stata un’inchiesta inutile. Ci sembra, per esempio, che i lettori abbiamo avuto la possibilità di farsi incuriosire da qualche autore, oppure di formarsi delle prime impressioni. In un mondo in cui non si può leggere tutto ed essere informati su ogni novità editoriale, anche queste occasioni diventano preziose. Capita così di raccogliere in una svagata chiacchierata in piazza un titolo, un’idea, una provocazione che in seguito, magari, attecchirà.
Ciò detto, tentiamo qualche riflessione conclusiva.

Perché scrivi? — La domanda è davvero banale e terribile. Si presta a ottenere come risposta una sonora spernacchiata o una sprezzante smorfia da gringo. Eppure, sarà capitato a tutti di affrontare qualche volto beatamente, candidamente interessato alla questione, magari quello di uno studente, o di un compagno, o di un signore finito per sbaglio tra il pubblico di un “incontro con l’autore”. Sarà forse una domanda che verrà più spontaneo rivolgere a un poeta, perché la risposta di un narratore in fondo potrebbe essere semplice: “Per vendere la mia opera e ricavarci un adeguato compenso, magari corroborato dal pensiero di diffondere qualcosa di piacevole e di buono”. Comunque, se uno si indigna davvero di fronte alla questione viene da pensare che non sia mai stato sposato e non abbia un figlio a cui rendere conto del tempo che gli sottrae.
Rileggendo le risposte ottenute, domina un senso di necessità, ma qualcuno (Bregola) nota che si tratta ormai di un cliché. In ogni caso, il bisogno della scrittura — lo si intuisce da molte riflessioni — sborda verso un limite ignoto; non che si dia credito a opzioni misticheggianti, ma sicuramente l’imperativo che spinge ad affrontare la pagina resta imprecisabile, almeno in parte.
Altra considerazione ricorrente: la scrittura è un gesto foriero di una sorta di felicità, diciamo pure di euforia, che va dal piacere artigianale, frutto della propria dedizione e della contemplazione della propria opera, al piacere più specificamente spirituale (qui i termini sono vari: catarsi, liberazione, annullamento, concentrazione, preghiera). Sempre, comunque, tale piacere si associa a un’idea di conoscenza.
La domanda tuttavia, se presa di petto, mette talmente tanto le radici nell’esperienza concreta di ciascuno che le risposte più sapide sembrano quelle di coloro i quali sono ricorsi a episodi, aneddoti, esperienze in qualche modo rivelatorie o emblematiche.

Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna? — La domanda è imbarazzante perché dà per scontati una serie di giudizi. Intanto, la narrativa odierna non esiste, ovviamente. Esistono gli scrittori. Eppure tutti ci costruiamo orizzonti, è inevitabile, anche se si tratta di proiezioni, di fantasmi. Sono lo spazio entro cui concepiamo il nostro stesso movimento. E rischiano di trasformarsi in un’ossessione, di generare un avvitamento critico che porta all’autoconsapevolezza estrema e paralizzante. Abbiamo alle spalle un secolo che ci ha raccontato compiutamente questo dramma. Quindi, il pensiero intorno alla narrativa odierna pretende per sé stesso la vaghezza, per risultare sopportabile.
L’idea che si evince dagli scrittori che hanno aderito all’invito è quella di un minimalismo che va per la maggiore, e che per soprammercato segue temi perlopiù “obbligati”, frutto persino, più che di un’imposizione dall’esterno, di una sorta di autoeducazione alle attese del “pubblico”: un asservimento volontario (dal momento che ogni scrittore rivendica la propria libertà!) a quelle che si suppongono essere le richieste da soddisfare per risultare apprezzati. Il fantasma agisce realmente, insomma. Ma è davvero questa, la caratteristica principale della narrativa odierna?
Si nota anche una certa propensione a edificare, a dare speranza. C’è voglia di affrontare la complessità, si resta fiduciosi, nonostante tutto, verso una semplicità raggiungibile che non risulti una semplificazione, ma una forma di giusta aderenza alla vita. Ci si dichiara pronti a sperimentare soluzioni sempre nuove, pur di. A patto che, ovviamente, tali sperimentazioni non si riducano a esaltazione del mestiere.
Non c’è sintonia, per contro, sul valore da attribuire alla trama nuda e cruda: è l’essenziale? La preoccupazione è che la voce prevarichi e si traduca in esibizione stilistica fine a sé stessa.

Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani — Ma il capolavoro di chiunque o il proprio? Ambiguità che induce alla tentazione… Già, perché la domanda misura l’ambizione, la forza con cui lo scrittore impugna la propria penna, la posta che mette in palio. Ovviamente, è consentito bluffare. Fa parte del gioco. Chi non si confronta con il domani, però, e pensa la scrittura solo nel presente, è uno sconfitto in partenza. D’altra parte, bisogna mortificare qualsiasi delirio di onnipotenza, qualsiasi configurazione della Letteratura come Congegno Diabolico di Propagazione dell’Ego. Per essere portatori dell’ingrediente serve autentica semplicità. Per questo motivo molti hanno scelto, per rispondere, la strategia della leggerezza. Abbiamo appreso tutti la lezione magistrale di Kung Fu Panda: l’ingrediente segreto non esiste. L’ingrediente segreto siamo noi e la nostra umile consapevolezza di essere speciali. Come tutti.
Del resto, il capolavoro, se viene, nasce sempre postumo a sé stesso. Vale a dire: un’opera diventa tale dopo. Si concepisce un capolavoro quando non ci si pone il problema del capolavoro medesimo, quando la sua esigenza non ha più senso, perché si è completamente distratti da altro, assorbiti in un pensiero che non procede contemplandosi.

Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati — Ovvero: adesso misurati sull’altezza delle tue aspirazioni. Rendi conto delle tue parole. Si prova l’imbarazzo del tizio che, scritti i propri versi, deve “verificarli” salendo sul palco, con il proprio pezzo di carta stropicciato, per provare a cantare, a fare il suo verso, intonato alla natura che ci si riconosce. Se uno stona, non ci sarà nemmeno bisogno del pubblico in sala (educato, o distratto, o troppo immedesimato, o semplicemente assente, nel buio): se ne accorgerà da sé, perché si sentirà ridicolo.

Come si forma un’opera nella tua officina? — «Ché questo è il grande mistero dell’arte: l’opera d’arte si fa da sé, eppure la fa l’artista». Non sono, queste, parole di un idiota come il sottoscritto, ma di Luigi Pareyson, e derivano logicamente, passo per passo, dalla concezione di «formatività» («un tal “fare” che, mentre fa, inventa il “modo di fare”») che egli poneva alla base della propria estetica, concezione che ha permesso tra l’altro di superare l’idealismo crociano e di ricondurre l’invenzione all’interno dell’esperienza, del concreto processo creativo che si sviluppa per tentativi, in un rapporto stretto fra l’artista, con le sue intenzioni, e la materia, che impone un attrito specifico.
Se a un certo punto scrivere significa seguire l’imprevisto, superare i propri stessi obiettivi, la scrittura è un’avventura. Ciascuno, infatti, ha i propri riti per “lasciare spazio all’opera”. L’idea più ricorrente nelle risposte (poteva essere diversamente?) è quella di una notevole fatica (che peraltro implica una promessa di felicità), perché il processo creativo è lento, lungo, complesso. L’ispirazione è ben nascosta dentro questa abnegazione, sempre che non sia solo un miraggio, comunque utile per progettare e progettarsi, per procedere nell’avventura. Il coinvolgimento è totale. L’officina di un’opera è il nostro stesso corpo.
Un’altra indicazione ricorrente: la scrittura è accompagnata sovente da molta lettura, e non casuale, ma mirata.

Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto? — Riguardare il percorso già compiuto e prendere atto di quanto si è cambiati (di quanto, con il senno di poi, si sarebbero compiute scelte diverse, in alcuni frangenti) significa misurare la propria spinta evolutiva, interpretare in quale traiettoria ci si trova. L’opera tormenta, perché ciò che è scritto rimane lì, mentre noi ci spostiamo e, da un’altra posizione, riusciamo a valutare meglio. Ma non c’è un senso implicito di gratitudine, verso l’opera che ha innescato in noi il cambiamento?
Due sono i partiti che si sono distinti: da una parte quelli che hanno mostrato una saggia e più o meno pacificata accondiscendenza nei confronti di sé stessi, dall’altra quelli più intransigenti. Attenzione, però. Non è detto che l’opera migliore sia frutto dello sforzo più alto, del muscolo più teso. Troppa energia può imbrigliare il gesto in una posa innaturale. Ma infatti quelli che dichiarano la massima severità lo fanno con disincanto postromantico, mentre i più indulgenti sembrano voler stornare lo sguardo dalla Gorgone. Così, alla fine, a pensarci bene, i due gruppi finiscono per guardarsi a vicenda.

La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che… — La domanda nasceva da una speranza: che esistesse una critica capace di fronteggiare, di incalzare e in qualche modo di aiutare gli scrittori. E invece, nonostante qualche segnalazione puntuale, sembra che il dialogo con i critici manchi del tutto. Antonella Cilento in tal senso è del tutto esplicita e perentoria. Intorno alle opere degli scrittori sembrano mescolarsi insipide segnalazioni giornalistiche, carinerie tra colleghi, spot pubblicitari, strusciamenti su internet, e chi più ne ha più ne metta. Per questo molti, per rispondere, si sono affidati a incontri reali con lettori, ad aneddoti significativi, a un dialogo, insomma, non ufficiale.
È il caso di preoccuparsi?

 

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