Salvare la poesia? (di Umberto Fiori)
Vale la pena ripetere queste considerazioni di Umberto Fiori – tra i poeti che stimo maggiormente – come un antidoto a una presunzione che ha radici intricate, che cercano nutrimento anche in terreni fertili di buone intenzioni…
Sono in molti, oggi, a temere che di qui a pochi anni, travolta e soffocata – da nuove tecnologie, da nuove forme di comunicazione, da un sistema di valori che la ignora o addirittura le si oppone, insomma da quell’orda di spettri di cui – da sempre – è popolato il futuro della modernità, la poesia scompaia.
Proprio in questo timore e negli allarmi, nei proclami, negli appelli a difenderla, a salvarla, mi sembra si riveli qualcosa che in altri contesti non viene pienamente in chiaro: la nostra civiltà tende a vedere la poesia come una cosa (un genere letterario, un’attività creativa, una modalità della comunicazione, una funzione del linguaggio, un valore culturale). Chi dichiara di volerla salvare, sta anche dicendo che ritiene di essere in grado – in certe condizioni – di farlo. Ma questo significa – a ben vedere – che su di essa qualcuno può esercitare un dominio, lo stesso che noi esercitiamo (o crediamo di esercitare) su ogni altro aspetto del mondo a patto di farne, appunto, un oggetto (oggetto sommamente complesso, magari, e degno del massimo rispetto). La poesia si può distruggere oppure salvare; insomma la si può controllare, dominare, se ne può disporre: questa è l’idea che accomuna i suoi difensori e i suoi presunti nemici. Che a pensarla così siano dei ministri o dei librai, delle professoresse, persino dei critici, non desta meraviglia: è strano, invece, che su questa prospettiva concordino molti poeti, cioè proprio coloro che dell’argomento dovrebbero avere ben altra esperienza.
Certo, la poesia si presenta oggi ai nostri occhi come l’oggetto di un settore dell’editoria, materia di recensioni e di studi, motivo di premi e vitalizi, nonché occupazione giornaliera di una serie di personaggi che sfornano libri di versi; ristrutturata l’editoria, licenziati i recensori, riformata l’università, estinti i premi, tagliati i vitalizi, chiuse le collane, ci sembra difficile che la poesia sopravviva. (Che sarà della poesia, senza la mia tavoletta di cera? Che sarà della poesia, quando gli dèi stranieri avranno cacciato il grande Amon? Che sarà della poesia quando la gente, invece di leggere, andrà a passeggiare tutto il giorno col velocipede?)
Dopo due secoli (almeno) che vengono ripetute, le profezie sulla morte dell’arte cominciano ad assumere ormai un risvolto involontariamente comico, come le raccomandazioni sempre più serie e sempre più farfuglianti di un nonnetto ottuagenario: «Mettiti la maglietta, veh!». Bisogna allora credere, ottimisticamente, che la poesia sopravviva a qualsiasi cataclisma? Non è questione di ottimismo o di pessimismo, di fiducia o di cinismo; non è, insomma, questione di volontà. Forse domani la poesia scomparirà (e di sicuro è già scomparsa da tempo dalla testa di molti poeti e dalle loro scritture); ma, se a scomparire sarà la cosa-poesia che ben conosciamo, non sarò certo io a dolermene. Quanto a ciò che ha animato e dominato uomini come Dante e Goethe, come Hölderlin, Baudelaire e Leopardi, non credo che – neppure a fin di bene – si lascerà dominare da noi. Quel che possiamo sperare è che un giorno, magari solo per un attimo, venga a visitarci.
(da Atelier n. 6)
(Cliccare sull’immagine di copertina per la visualizzazione completa: Modern life is rubbish, di Emanuele Taglieri)
Molto bello.
Grazie.