L’invenzione della realtà
Appartengo alla Mtv generation, cresciuta nel mondo dei video musicali, videogame e film d’azione.
Il mio immaginario è totalmente diverso da quello delle generazioni precedenti. Tutto è veloce e “pronto per l’uso”; ma così la concentrazione, e la capacità di approfondire le cose si è persa. Niente richiede sforzo e anche la cultura diventa un prodotto da fast food che va giù velocemente, riempie ma non contiene i nutrimenti necessari, proprio come lo zucchero che dà vigore per un momento ma il cui effetto svanisce subito.
Per apprezzare una cena dai sapori sottili accompagnata da un buon vino serve una preparazione.
Johan Silverhult
Se ne rendono conto molto bene gli insegnanti, che anno dopo anno si trovano di fronte ragazzi sempre più intuitivi ma irrequieti, incapaci di concentrazione e di perseveranza su obiettivi a medio e a lungo termine. E se ne rendono conto molto bene i genitori, impegnati a seguire figli terribilmente precoci, che gestiscono risorse spaventosamente potenti con competenze che loro stessi non possiedono neppure adesso, da adulti.
La realtà virtuale sta progressivamente prendendo il posto del mondo, come ci racconta la vulgata cinematografica. L’ambiente che ci circonda si smaterializza, assume la forma di icone sul nostro desktop, sostituisce le curvature del paesaggio con orizzonti elettronici, dando l’illusione di espandere l’io lungo le diramazioni infinite degli strumenti tecnologici. La retina di un bambino è più sensibile alla luce di un monitor che a quella che colora il paesaggio, appena oltre. I movimenti leggeri ci sfuggono, non sappiamo più cogliere i sentimenti nemmeno sul volto delle persone che amiamo. Il mondo si va svuotando, le nostre mani non riconoscono più le forme che ci iniettano, eccitando, e insieme inebetendo, la nostra immaginazione. Tutti gli apparati percettivi si innervano su specchi, funghiscono su sé stessi.
La storia, intanto, pare sfuggirci da ogni lato, come fossimo prigionieri di una bolla temporale: ci aggrappiamo ai feticci del momento, che vediamo riflessi e deformati dalle pareti invisibili che ci circondano. Ogni cosa è lontana anche quando è vicina, o non esiste anche quando l’abbiamo sotto il naso.
Siamo nel mezzo di una rivoluzione estetica che non ha nulla a che vedere con l’arte e con la poesia, tant’è vero che le avanguardie di qualsiasi stagione si sono lasciate catturare dalla smania di riagganciare la poesia al proprio tempo, per riportarla sul carrozzone della storia, magari addirittura per attribuirle un ruolo strategico in tali mutazioni epocali.
Paradossalmente, invece, questo contesto non delegittima la poesia, anzi, ne protegge il senso. «Questo mondo ha bisogno di poesia», si ripete riducendo a luogo comune un grano di verità cui è necessario dedicarsi con fervore e furbizia, mentre tanti imperterriti futuristi da museo si lanciano nel grembo di metamorfosi sociali che li trasformerebbero in scrittori da esibizione, in intellettuali di specie più evoluta (ma sempre con la griffe degli intellettuali…), in similcantanti, in poeti da installazione. (E qui il critico dovrebbe operare con precisione chirurgica, senza farsi partigiano di un’ideologia letteraria che garantirebbe soltanto la partecipazione allo show, legittimando ancora il gioco delle parti).
Non vogliamo cadere nella retorica delle «magnifiche sorti e progressive», che cela la nostalgia per un passato comunque idealizzato. Tant’è vero che ogni forma di contaminazione ci intriga e ogni possibile nuova esperienza ci seduce. Consci, però, che la poesia non si riduce al gesto.
Anche una volta per imparare a gustare un buon piatto servivano le parole che lo descrivevano con esattezza. Non temiamo, dunque, il futuro che ferocemente ci divora con il vortice delle sue esperienze: siamo ormai antropologicamente flessibili, capaci di adattarci rapidamente a rivoluzioni reali o presunte, senza la falsa saggezza di chi dietro a ognuna di esse intravede solo vacui trasformismi. Ci teniamo soltanto a ricordarci che la realtà va continuamente inventata, per poterla vedere e che serve molta pazienza, per rallentare i nostri palpiti frenetici e sintonizzarli sulle frequenze del respiro.
La poesia si oppone all’omologazione estetica, difende le differenze del sentire, chiede ai nostri sensi di riattivarsi continuamente per penetrare capillarmente ciò che ci circonda.
La poesia non crede nella realtà, ci aiuta a inventarla, a cogliere le sfumature dove riposa il senso, ad ascoltare il ritmo del tempo, che troppo spesso ci illudiamo di beffare cambiando canale, spostando lo sguardo, rigettando parole che non si raccolgono intorno a nessun silenzio.
La poesia non ha nostalgia e, anche quando chiede alla voce di alzarsi e picchiare, non smette di sognare ciò che va toccando con il desiderio di un cieco. Ha bisogno di essere continuamente rassicurata sulla presenza degli altri, come l’innamorato sempre incredulo, sempre inadeguato, sempre capace di stupirsi di fronte allo spettacolo quotidiano del mondo.
(Cliccare sull’immagine di copertina: Annibale Carracci, Il Mangiafagioli, olio su tela, 1584-1585 circa, 57 x 68 cm, Roma, Galleria Colonna)
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