Pro o contro la tradizione? (di Martino Baldi)
Riprendo volentieri questo intervento di Martino Baldi, su un tema che mi è caro. Ho sempre ragionato in termini di “tradizione interrotta”, perché a un certo punto il passaggio generazionale (comunque lo si voglia definire e intendere) è venuto meno, come ho registrato in questo libro.
Gran parte della mia attività letteraria, in quel mio primo giovenile errore, cercava di ripristinare ma soprattutto di reimpostare (considerati i nuovi paradigmi del nostro tempo) una connessione orizzontale, e quindi anche verticale, all’interno della comunità (nella sua natura di melting pot, ovviamente) degli scrittori, perché il presente avesse una forma, certamente complessa, ma pur sempre intelligibile, offerta al giudizio dei posteri.
Per intendere il problema, si potrebbe riesumare anche il concetto di post-moderno. La modernità è la tradizione che ci si offre ormai come repertorio completo e vario, in qualche modo anche piatto, perché con il crollo di ogni grande pensiero interpretativo del mondo è finito ogni storicismo, e se non c’è più progresso, il post-moderno è la libera rivisitazione e il libero rimescolamento di tutte le opzioni precedenti: non più “tradizioni” ma “esperienze”. Il pericolo che ci presenta Martino è quello di lasciarci incantare da tutto questo fenomeno, e di rimanere con la schiena rivolta alla storia e alla vita, per porre come oggetto della nostra arte la poesia stessa, elevata dunque a idolo o feticcio.
Pro o contro la tradizione?
Martino Baldi
La questione del rapporto con la tradizione è per me un falso problema. La nostra è una generazione senza tradizione nel senso canonico del termine. Siamo il risultato non solo del moltiplicarsi delle poetiche, ma soprattutto della loro combinazione. In virtù di questa esplosione, ognuno di noi è l’esito di una tradizione diversa, ha un canone personale senza per questo essere “fuori”. Sono sostanzialmente d’accordo con Fabio Simonelli quando sostiene la sostituibilità del termine “tradizione” con “esperienze”.
Con questo non voglio esprimere un ridimensionamento dell’idea di poesia o un allineamento al basso, previo “cestinamento” delle esperienze “alte” che ci hanno preceduto. Voglio semplicemente dire che tutto ciò che è stato prima di noi è lì, a disposizione di tutti, e la sua eterogeneità toglie il potere di canone o censura. Noi siamo liberi dalla tradizione perché la tradizione ci ha liberati. Questo comporta, credo pacificamente, il riconoscimento della qualità poetica non secondo un codice genetico, ma secondo la funzione e il funzionamento. Se quest’ultimo dipende in tutto dal talento tematico e da quello linguistico del poeta, la questione della tradizione può veramente divenire importante ovvero invadente, per quanto riguarda la funzione. In questo senso, siamo troppo legati alla tradizione quando questa prende il posto del mondo, quando il nostro corpo a corpo si limita ad essa e non con il mondo attraverso essa. Quando la poesia non è la nostra arte ma oggetto della nostra arte, allora forse ci siamo infilati in una tautologia senza spiragli. E per tautologie intendo non solo quelle tematiche, ma anche quelle stilistiche. Quando la tradizione non è il sangue con cui scriviamo ma l’oggetto o il modello, noi ne siamo fuori; non importa se sopra, sotto o accanto. L’unico modo di stare in maniera “forte” nella tradizione, è stare “dopo” e oggi stare dopo significa stare nella libertà, perché nella nostra tradizione stanno ormai orizzontalmente poemi, canti, inni, idilli, frammenti, commedie, tragedie e desolati lamenti. Perché allora tante voci in fondo consonanti? Dobbiamo fare attenzione alla retorica degli specialisti, assai più pericolosa di quella rozzamente popolare, perché è più difficile da riconoscere e più facile da contrabbandare. L’unico modo per combattere la retorica, secondo me, è non porre più veti di nessun genere né di indicare ingredienti indispensabili. Noi non possiamo più permetterci di porre veti nemmeno sulla rima “cuore : amore”. Possiamo, invece, dire che cosa chiediamo alla poesia, che cosa vogliamo che sia e che cosa non vogliamo. Io vorrei che nella poesia scorresse il sangue dei poeti e non la loro tecnica affinata su testi altrui, che ogni poeta accordasse la propria voce a se stesso e non a quella degli altri. Vorrei che quella voce mi raccontasse ciò che onestamente si può raccontare, il proprio mondo. Certo a un poeta non chiedo che mi parli di internet, come provocatoriamente (credo) esige Flavio Santi nel suo intervento, se nella sua vita internet non ha alcun significato, idem per Marylin o per Carosello. Però è vero che siamo la prima generazione che si è formata principalmente non sui libri ma sull’audiovisivo; lo spot è quasi stato il nostro catechismo, la musica e il cinema i nostri auctores. La nostra esperienza culturale è piena di film e di canzoni, di fatti storici e icone generazionali che nelle nostre poesie difficilmente trovano spazio. Perché? Perché è cambiato il modo di percepire e rappresentare il mondo. Con quale poesia risponderemo a queste modificazioni? Se la pensiamo come arte o forma di cultura e non come disciplina isolata e specialistica, dobbiamo avere il coraggio di guardare fuori dalle sue finestre, intraprendere la strada del confronto con le altre arti, senza necessariamente abbassare la considerazione e il livello della nostra o sminuirne la funzione.
Strettamente connesso a ciò è il problema del pubblico. Può sperare in un pubblico la poesia che parla di se stessa a se stessa? Si rischia il disinteresse assoluto perché si muove spesso sul filo dell’autoreferenzialità, tematica e/o linguistica. Con ciò non auspico che la poesia si metta a inseguire il gusto generale, non credo che si debba cercare di proporre una poesia “popolare” o “leggera” né credo che sia doveroso chiedersi perché la grande massa ignori la poesia, bensì – questo sì – perché a ignorare la poesia o a non essere interessata ad essa sia anche la maggioranza degli intellettuali, degli artisti e – si abbia il coraggio di ammetterlo – perfino degli stessi poeti, spesso assolutamente estranei alle composizioni altrui (magari espertissimi di cinema, fumetti e musica rock). Non ci interessano le modalità del successo popolare di un Camilleri o di un Benni, chiediamoci, invece, perché la nuova poesia non interessi un granché nemmeno ai lettori della Trilogia della città di K. di Agota Kristof, tanto per fare un esempio di libro denso, difficile, sicuramente non pop, ma molto letto e apprezzato, oppure perché ancor oggi si vendano (e soprattutto si leggano) probabilmente più copie dei Fiori del male o addirittura del Liber di Catullo o sicuramente degli Ossi di seppia piuttosto che di una nuova opera, o perché sia il cinema sia la musica stiano riuscendo a catalizzare sempre maggiori attenzioni e interessi intorno alle loro espressioni contemporanee più colte. La poesia non è capace. Siamo fuori dal mondo? Perché? Da quando? Giusto ironizzare sul fatto che cantantautori o registi, più o meno popolari, si accompagnino in pubblico con poeti che almeno occasionalmente hanno saputo “rompere il muro” oppure sulle foto in guepierre e sulle operette rap? Giusto continuare così in nome dell’Arte (la poesia ultima arte?), dei bei tempi andati o di che cos’altro?
A mio parere la Poesia semplicemente non è per sua natura comprensibile.
Qualunque canzone, per colta o sofisticata che sia , è, se vuole essere ascoltata, prima di tutto, orecchiabile ( sia musica che testi).
Un qualunque film, o quasi, è o dovrebbe essere visivamente potente; senza contare che ha una storia che possiamo seguire, senza contare che non si deve fare nulla se non guardare e stupirsi.
Un romanzo, come quello citato, è composto di frasi solide, di esperienze dirette, con una sintassi che non pone il minimo problema di lettura. Un videoclip ha ritmo, colori, e si muove, senza contare che è abbinato a una star, a un’icona, a una figura religiosa insomma.
No, la poesia non ha la minima chance di poter competere nemmeno con la pittura non fosse per il fatto che l’arte plastica è un bene di rifugio tra i più ambiti, un bene di lusso, l’opera mantiene ancora, nonostante tutto, la sua aurea.
Con la Poesia non si diventa ricchi, non si diventa famosi, non si diventa dei saggi mediatici, non si diventa proprio un bel niente.
Non è commerciabile. Non ci si può ricavare un film da una poesia. E’ inutilizzabile. Non insegna e non la si può insegnare.
E’ destinata a un uso solitario, per pochi, ma cosa dico? per pochissimi. E chi sono? Gente che se ne intende forse, ma che non lo può provare e diventa frustrata. E poi non vende, certo che non vende e perché? perché non la si compra, che altro.
No, la Poesia non ha la minima chance di poter competere con tutti gli altri fenomeni artistici .
Ne esce a pezzi, incenerita, distrutta.
La soluzione?
Francamente non vedo il problema.
Ma non è fantastica?
Talmente fantastica che potrebbe accadere anche il contrario. Che da Dante si tragga un colossal. Che la Szymborska venda quanto un narratore. Che un verso abbia il potere di aprire una voragine esistenziale più di migliaia di pagine di un romanzo o di canzonette-tormentoni.
Purché, certo, questo accada per accidente.
Il trombone che ci proverà si sarà trombato da solo.