Resistere sulla propria zattera, surfando sulla letteratura liquida
Se la tradizione è evaporata e gli scrittori contemporanei vivono, nel migliore dei casi, lo spazio di un successo aleatorio, in attesa della colossale rimozione che li attende, non sorprende che uno dei temi portanti della letteratura oggi sia proprio la precarietà. L’argomento è stato studiato con dovizia in particolare da Daniele Maria Pegorari, docente di Letteratura italiana e Sociologia della letteratura all’università ‘Aldo Moro’ di Bari, che quest’anno ha licenziato due volumi, Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità e Scritture precarie. Editoria e lavoro nella grande crisi 2003-2017.
L’impianto di questi lavori si intuisce subito: mutuando dalla sociologia alcuni paradigmi determinanti (la liquidità di Zygmunt Bauman, anzitutto), lo studioso affonda lo sguardo in molteplici testi della nostra epoca. Eppure, vanno annotati subito due meriti che rischiano di passare in secondo piano.
Anzitutto, lo sguardo di Pegorari non si appiattisce sul nostro tempo né si concentra solo sulla letteratura italiana. La modernità liquida, che caratterizza anche la letteratura, è inserita nel contesto della lunga crisi del capitalismo mondiale e ricondotta nell’alveo anzitutto della cultura decadente, senza rinunciare a chiamare in causa i grandi classici dei secoli precedenti, anche stranieri.
Secondo merito: Pegorari non è uno di quelli che predica bene e razzola male. Tanto per intenderci, arricchendo il proprio arsenale con i paradigmi e i dati della sociologia, non dismette affatto i panni del critico, anzi. Al di là dei giudizi di merito che emergono da queste pagine, spicca in particolare la capacità dello studioso di mettere in relazione, con spudorata intelligenza, sia autori e libri di successo sia libri più o meno sconosciuti e talvolta semiclandestini. In questo, è il primo a portare avanti con coerenza i principi che si agitano alla base di questi volumi, che all’interno di una struttura autorevolmente accademica lasciano pulsare un nucleo preziosamente militante.
Pensiamo a una delle sei parole chiave delle lezioni sulla crisi della modernità: interesse (le altre sono postmodernità, riflessività, autorialità, sincerità e resistenza). Limitarsi a distinguere interesse economico e interesse cognitivo (sulla scorta, per esempio, delle celebri analisi di Martha Nussbaum) sarebbe ozioso, se l’autore di queste pagine non fosse il primo a dare cittadinanza, accanto ai titoli mainstream, a libri che di fatto, essendo estranei e insignificanti rispetto ai criteri editoriali, rappresentano al meglio l’interesse che preme anche al critico, consapevole e agguerrito difensore della differenza fra profitto e valore.
Assumono dunque ben altro spessore le dichiarazioni che possiamo raccogliere in queste pagine, dal momento che non suonano come supponenti filippiche, rivolte agli scrittori da un non-luogo in cui la critica rimane protetta, ma come princìpi che si rilanciano dall’interno della letteratura stessa, da uno spazio ideale di resistenza:
Una letteratura che non sappia come tagliare la rete che separa il già dal non ancora, il perturbante dal desiderabile, il dannato dal redento, non è affatto resistente, è dimissionaria, perché non fa che replicare il paradigma dualistico che regola la società dei consumi: da un lato le merci opache, grevi e a obsolescenza programmata, dall’altro lo spazio digitale dove tutt’al più si inventa la verità, ma solo dopo aver firmato una rinuncia a cambiare la realtà. In una società come quella odierna, caratterizzata da una dismisura fra la disponibilità esagerata di mezzi e la penuria di scopi e valori – in sostanza abbiamo più beni e strumenti per procurarceli che necessità di averne e obiettivi a cui indirizzarli – la letteratura ha ancora un gran lavoro da svolgere, che consiste proprio nella creazione di quei fini attualmente inesistenti. La tecno-scienza al servizio dell’economia contemporanea sa solo creare un ciclo ininterrotto di desideri di possesso, funzionali al rapido accantonamento dell’oggetto acquistato, per far posto a un nuovo desiderio.
Così alle pp. 169-170 della Letteratura liquida.
Si agita dunque, nel lavoro di Pegorari, un alto ideale umanistico di letteratura, chiamata a resistere all’evaporazione cui la società liquida sembra condannarla. E dietro a questo ideale umanistico c’è un richiamo potente alla realtà, che certamente non può più essere inteso come semplicistico richiamo al realismo (apparteniamo a un’epoca di post-realtà, «cioè di una irrealtà che attinge uno statuto di verità per il solo fatto di essere comunicata e creduta»), giacché la riflessività dell’arte non è mera capacità di riflettere, come uno specchio, il mondo a cui (non) appartiene. La riflessività dell’arte rimanda semmai a un concetto solido della testualità, a dispetto di ogni mondo virtuale che vorrebbe corrodere (è la parabola del nostro Novecento) sia l’opera sia il suo autore.
Da quando la produzione letteraria si è fatta insostenibile, forse lo scisma all’interno della cultura è inevitabile. Alla fine di Scritture precarie Pegorari non si fa scrupoli, per esempio, a immaginare un futuro in cui il digitale (al netto di un potente ripensamento globale) si farà carico della letteratura di consumo, mentre il cartaceo continuerà a veicolare, in modo sostenibile, le nicchie in cui potrà sopravvivere una qualità che non sia timbrata con una data di scadenza. Allo stato attuale, malgrado tutte le buone intenzioni, non si è in grado di produrre nuovi classici, ovvero libri destinati a rimanere, testimoni dello Spirito del Tempo da tramandare, a causa delle condizioni stesse della nostra società (e letteratura) liquida:
se l’editoria cerca libri seriali e facili, non è onesto aspettarsi che lo scrittore d’oggi in cerca di successo, specie se giovane, scelga la via di un impegno letterario che lo farebbe – dantescamente – «per molti anni macro». E, ancor di più, non è possibile meravigliarsi per la mancanza di una ‘grande narrazione’ della recessione, giacché questo vuoto letterario è esattamente il portato finale di un processo secolare di disorientamento ideologico, di fine del romanzo, di ipertrofia del frammentismo lirico, di riduzione aforismatica del pensiero e, infine, di virtualizzazione della stessa economia. Come potrebbe nascere il Romanzo, il Poema del Nostro Tempo, se il suo protagonista, ora, potrebbe solo essere un individuo dalla ‘temporanea qualità’? (Scritture precarie, pp. 124-125)
Come critico, Pegorari fa dunque la sua parte e gliene va dato merito.
Ed è un conforto. Autori che, solcando gli oceani della letteratura liquida, fanno surf sulla loro zattera cercando un nuovo continente a cui approdare, ce ne sono.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/21/gino-rago-due-poesie-inedite-da-i-platani-sul-tevere-diventano-betulle-con-una-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-48239
Manca una visione d’insieme, una visione del mondo
Come nel Trecento, il mondo occidentale di oggi è affetto da un plesso di crisi che si sovrappongono e si intrecciano creando una miscela esplosiva: c’è la crisi demografica, la crisi economica e la crisi politica degli stati nazione, in più si assiste all’impoverimento dei ceti medi e all’arricchimento di chi è già ricco. Non è facile per un poeta di oggi avere una visione complessiva dello stato delle cose, manca una visione d’insieme, una visione del mondo. In questa situazione l’arte tende ad occuparsi di dettagli insignificanti, diventa minimal. In una parola, diventa insignificante.
Lasciamo la parola a Wittgenstein:
«Una difficoltà in filosofia è che manchiamo di una visione d’insieme. Ci imbattiamo nello stesso tipo di difficoltà che avremmo con la geografia di un territorio del quale non possediamo mappe, o solo una mappa di singoli posti. Il territorio del quale stiamo parlando è il linguaggio e la geografia è la grammatica. Possiamo percorrere il territorio senza grosse difficoltà, ma quando ne dobbiamo fare una mappa, ci sbagliamo. Una mappa mostrerà percorsi diversi che attraversano gli stessi luoghi; ne possiamo prendere uno alla volta, ma non due contemporaneamente, proprio come in filosofia dobbiamo occuparci dei problemi uno alla volta, sebbene in effetti ogni problema rimandi a molti altri. Dobbiamo attendere sino a che non siamo tornati al punto di partenza prima di poter discutere il problema che abbiamo affrontato in precedenza o procedere verso un altro. In filosofia le questioni non sono abbastanza semplici da poter dire «ne abbiamo un’idea sommaria», perché non conosciamo il territorio se non attraverso la conoscenza delle connessioni fra i percorsi. Così consiglio la ripetizione come un modo di indagare le connessioni».1
Possiamo fare nostra l’affermazione di Wittgenstein e applicarla alla poesia, al romanzo e all’arte nell’epoca del minimalismo. Manchiamo di una visione d’insieme, di un territorio vasto come la terra ci ritagliamo il minuscolo orticello del nostro corpo e di lì parliamo delle nostre vicende private, della nostra biografia, delle nostre questioni personali che non interessano nessuno se non a un voyeur. E così abbiamo trasformato il lettore in un voyeur. Bizzarra e orrifica metamorfosi! E non ce ne siamo accorti. Ci siamo talmente abituati a questa visione delle cose che pensiamo in buona fede che quella sia la poesia, il romanzo, l’arte del nostro tempo. Ma è una visione assolutamente fallace e riduttiva del mondo delle cose. Non resta che aprire gli occhi e guardare il mondo con altri occhi. Non li abbiamo? Allora dobbiamo immaginarceli.
1 L. Wittgenstein, [dichiarazione sul proprio metodo filosofico, rilasciata nel 1933], in Wittgenstein. Una biografia per immagini [2012], a cura di M. Nedo, trad. di A. Bernardi e M. Jacobsson, Roma, Carocci, 2013, p. 11)
Sono molto d’accordo, Giorgio. Tant’è vero che, se dietro a delle poesie pur belle (e di solito non superiori ai 20 versi…) non avverto la presenza di un Discorso, e un Discorso che vada davvero al di là del proprio ombelico, passo subito oltre
Cioè mi state dicendo che attualmente nessuno scrive poesie degne di chiamarsi tali? No no ho capito, qui si parla di estinzione generale, mancanza di collante, ma visto che a quanto pare tutto è già morto, nel piccolo, chi resiste? I nomi. Voglio dei nomi. Nomi e sillogi precise. A sto punto ne ho bisogno. Degli esempi. Chiedo molto? Brutto fare dei nomi di colleghi? O se no, per me, è solo un altro strombazzare la grande morte da una rupe col mantello nero e il vento forte che tira contrario. Ricavare un senso di potenza da questo esercizio voluttuoso e vagamente auto compiacente, ancora????? Senza un qualcosina di più? Non sto dicendo che non siano corrette le analisi ( io non lo so) sto dicendo che si deve anche però avere coraggio di parlare di indicazioni, direzioni possibili. Minime. Qualcosa. Poi lasciatemelo dire senza che nessuno si offenda: un conto se questo grido di morte lo fa un Bernhard, perché mentre lui lo fa (faceva) intanto generava letteratura tra le più alte, un conto se lo si fa qui, tra i normali, tra degli analisti colti e preparati. Sto chiedendo, nel caso non sia chiaro, anche un atto di umiltà, di sguardo minimo sul vivente, sul dettaglio, su ciò che c’è, o se preferite, su ciò che resta. No, perché se no sbattere sul tavolo anatomico il cadavere della poesia e scrivere su di esso, sulla morte della sua morte etc, è operazione già stata compiuta negli anni 60 dall’arte concettuale per esempio che, tra parentesi, alla fine, oggi, nonostante le sue premesse di allora a dir poco devastanti, di soggetti da dipingere i pittori ne hanno comunque ritrovati. Grazie e buon anno.
Ciao Max. Io sono quasi trent’anni che faccio nomi. Anche andando ad additare i re nudi, ovvero gli scrittori che più di altri sono visibili e hanno la fama di quelli che rimarranno. Con analisi molto puntuali, ovvero con un lavoro molto umile, misconosciuto da tutti, alla fine. E continuo a farli, anche su queste pagine, sebbene, ormai, con più capriccio e senza rimettermi addosso i panni del critico. Ma il giochino dell’articolo di lamentela a cui si risponde con i propri diedi nomi / titoli eletti, che fa partire la solita catena di Sant’Antonio, no, non chiedermelo. Il canone si chiede ai critici. Io, come scrittore, non devo più cercare compromessi con il falso storico che stiamo vivendo: costruisco in tutta libertà la mia galleria sotterranea, per evadere.
Non so se mi sarà dato di vedere la luce. Ma scavo. Che altro potrei fare?
Ciao.
Niente, hai ragione. Niente.
E poi i nomi che leggo qui li cerco.
Alcuni mi hanno davvero colpito. Di alcuni ho comprato e letto quanto mi è stato possibile.
Celan, Fortini e Sereni, li ho iniziati a leggere qui. Solo due anni fa manco sapevo chi fossero.
Posso solo ringraziarti.
Da oltreoceano ti segnalo le poesie di Ben Lerner. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi se mai ne penserai qualcosa.
Qui una o due.
https://internopoesia.com/2018/10/23/ben-lerner/