L'autore è la lampadina accesa

L’autore esiste?

L’autore esiste mentre scrive l’opera. Prima e dopo esiste la persona reale. Tale persona reale è una sorta di lampadina spenta, mentre ciò che fa la differenza è la luce.

È dunque a tutti gli effetti l’opera che genera l’autore, non viceversa. Figlio delle sue stesse parole, trasumanato per esse, nell’aldiquà l’autore non esiste.

Ripenso a tutto questo rileggendo le considerazioni di Daniele Maria Pegorari sulla mia scelta dell’eteronimo, all’interno del suo studio: Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità. Il giovane critico barese analizza cinque caratteristiche dell’Autorialità nell’epoca del postmoderno (o della modernità liquida), intese per lo più come dismissione del ruolo centrale dell’auctor, cominciato con la “perdita d’aureola” già segnalata da Baudelaire e sancita nel 1936 con L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin (ma il capitolo comincia con la prima rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, il 9 maggio 1921, che suscitò aspre polemiche). Le cinque sintomatologie della crisi dell’autorialità sono (oltre all’anonimato) la pseudonimia, l’eteronimia, l’autofiction, la pseudobiblìa (o fanta-filologia) e il fenomeno dei collettivi.

Mi sembra particolarmente azzeccata l’osservazione di Pegorari quando attiva un’ambivalenza, all’interno di talune di queste strategie, che recuperano in altra forma il ruolo dell’autore (il critico parla anche di identità aumentata):

L’esistenza degli pseudonimi, peraltro, indebolisce proprio la teoria strutturalista barthesiana, poiché, piuttosto che portare acqua al mulino della fungibilità dell’autore rispetto ai significati fondanti dell’opera, protesta continuamente la volontà dell’autore di costruire sensi a partire dalla sua identità: in un certo senso (e nei casi più ragguardevoli) l’autore che sceglie per sé un altro nome crea un Ur-Personaggio, quasi mai un Io alternativo e contrastante con l’io anagrafico, ma senz’altro un’identità semioticamente più forte, portatrice di una connotazione e di una poetica in qualche misura determinante già prima che il lettore conosca l’opera.

Se Barthes predicava La morte dell’autore (1968, data altamente simbolica in ottica di contestazione dell’autorità) «spostando l’attenzione del lettore sulle funzioni quasi automatiche del congegno letterario, sulla costruzione dei significati affidata in prevalenza al potere semiotico delle forme, dei generi e degli stili», non credo alla scomparsa totale della volontà dell’autore. Penso semplicemente che la volontà dell’autore si impasti nell’opera, si trasformi, riceva dalla stessa uno shock, un incremento d’essere imprevisto, e che tale acquisizione non si sedimenti automaticamente nella persona biografica che sta dietro a un’opera. L’autore ha un’identità discontinua, è una collana di stati di grazia, che hanno radice nel contatto con l’opera, nell’attrito creativo con la materia (concreta e psichica).

Peccato che, nello studio in questione, per quanto riguarda la fanta-filologia manchi (in parte per motivi meramente cronologici, suppongo) il più bravo di tutti: Davide Brullo. Sono certo che Pegorari, così attento e scrupoloso, saprà rimediare presto.

A proposito: il brano che mi riguarda, all’interno della seconda strategia, si trova alle pp. 83-84:

Non sono, invece, un mistero gli eteronimi di due ottimi poeti contemporanei in lingua, Tommaso Ottonieri (1958) e Andrea Temporelli (1973). Il primo è in realtà la maschera poetica, ispirata al saggio e ironico protagonista di un’operetta di Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, scelta da un apprezzato italianista, Tommaso Pomilio, figlio dell’indimenticato romanziere Mario Pomilio (1921-1990), col quale probabilmente preferì non creare delle improprie sovrapposizioni, posto che tutta la sua ricerca creativa si è collocata sul fronte della migliore neoavanguardia meridionale (successiva ma, a mio avviso, più meditata e ‘necessaria’ di quella centro-settentrionale, iniziata intorno al 1960); ne è recente testimonianza una raccolta molto convincente sotto il piano formale e sotto quello delle accensioni ambientaliste, Geòdi.

Il secondo caso viene dalla generazione successiva, ed è quello di Andrea Temporelli, eteronimo di Marco Merlin, il quale, come Tommaso Pomilio, firma col suo ortonimo i saggi di critica letteraria italiana, mentre affida all’identità fittizia la sua seconda natura, sin da quel librino del 1999 in tiratura limitata, Il cielo di Marte, che lo segnalò come punta promettente della nouvelle vague italianacome poi ha confermato la più recente raccolta intitolata Terramadre; in questo caso la scelta dell’eteronimia non riguarda il depistaggio – non c’è mai stato alcun mistero circa la coincidenza di Temporelli e Merlin – quanto forse la prudenza con cui questo scrittore ha cercato con onestà di perseguire l’autonomia fra la dimensione creativa pura (affidata all’eteronimo) e quella dell’insegnante, dell’operatore culturale e del critico. Temporelli per molti anni aveva cercato di chiamare a raccolta una nuova generazione di autori (per lo più nati negli anni Settanta) per superare l’impasse in cui riteneva (giustamente) che fosse bloccata la poesia italiana, indebolita da una militanza paga dei troppo facili ed effimeri successi e da una critica accademica «attardata su temi, voci e strumenti incapaci di monitorare» il contemporaneo. Non a caso, quando ha ritenuto che fosse fallito il suo tentativo, egli ha pressoché affondato l’ortonimo, lasciando sopravvivere solo l’identità creativa.

 

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