Il senso della critica nell’era della deep literature. Lettera aperta a Demetrio Paolin
Caro Demetrio,
per un poeta che per decenni si è prestato alla critica, alla disperata ricerca di una possibilità di giudizio per intere generazioni rimosse dalla tradizione, le domande che la redazione ha posto su un tuo recente intervento intorno alla critica letteraria come dono e discorso sono state qualcosa di più di un invito alla lettura.
Si può ancora perseguire e valutare la qualità letteraria?
Così recita il corsivo galeotto. “E che cavolo”, mi sono detto subito, “ci risiamo”. La qualità letteraria esiste, quindi non solo si può, ma si deve perseguire e valutare. Lo so da poeta e scrittore che soffre la mancanza di una critica agguerrita, aggiornata e autorevole. Difendo insomma i diritti del nemico (è di Aristotele il motto secondo cui, in assenza di un amico capace di criticarti, sarebbe opportuno pagare un nemico perché lo faccia?).
Pur condividendo tutto il tuo scetticismo nei confronti delle classifiche di qualità (che dimostrano proprio la mancanza di un discorso critico, cui si cerca di ovviare con la statistica, coi repertori, con le inchieste, con il discutiloquio pseudodemocratico), pur abbracciando totalmente il tuo rifiuto di un’idea della letteratura come merce, quando hai affermato che “Non è la qualità la preoccupazione principale del critico letterario”, ti avrei sgozzato. Stavo per smettere di leggere, ma per fortuna il periodo successivo ha ristabilito il contatto:
Sembra un paradosso: ciò che conta per il critico non è qualità, ma come il testo entra in comunicazione con chi legge, la produzione di stupore, di bellezza, di fatica; il modo con cui un testo influenza la sua epoca, come se ne fa carico e destino. Compito della critica letteraria non è mettere i voti, porre sufficienze o insufficienze, ma riflettere su qualcosa di più profondo che potremmo chiamare discorso sull’umano: “Ma in ogni caso ciò che noi in un’opera comprendiamo e amiamo è l’esistenza di un uomo, una possibilità di noi stessi” (Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo)
Ebbene, che cos’è la qualità letteraria se non proprio ciò che tu descrivi? È ovvio che non si possano inserire coordinate di contenuto e di forma per misurare la potenza di un testo, è evidente che attribuire un voto è un gesto provocatorio, inutile e insensato. Queste operazioni, tradotte maldestramente in termini scolastici e pseudo-scientifici, è ciò che può (e forse deve) restare implicito in quel cercare di capire come un testo si fa carico e destino della sua epoca.
Da tempo siamo usciti dal bellettrismo. Il Novecento spacca il cuore dell’estetica con l’urgenza etica. Oggi una poesia è bella se avvia un incremento d’essere. Per questo, per intenderci, Baricco è un bluff, un incantatore, un genio sterile. E per questo più che mai ci sarebbe bisogno di un discorso critico che ponga al centro di tutto la qualità, proprio per liberarla dalla sua sussidiarietà rispetto al mercato. Chi oggi svolge l’incarico di porre sui libri il marchio di qualità per distinguerli da quelli ritenuti non meritevoli non è affatto un critico, ma un addetto pubblicitario.
Diciamoci un’ovvietà: molti dei migliori autori contemporanei sono sommersi in una sorta di deep literature (qualcosa di analogo al deep web). Lo sanno tutti.
Corollario scontato: molti invece hanno raggiunto visibilità e prestigio editoriale. Ma perché nessun critico è in grado di viaggiare in queste due dimensioni per spezzare, appunto, quella perniciosa finzione, quel confine infondato, quell’alibi comodo che sancisce “a propri” la distinzione fra tutta la letteratura visibile e commerciabile e quella sommersa? Questo dovrebbe essere il passo iniziatico di ogni critico odierno, il momento fondativo della sua stessa autorevolezza e credibilità. E invece…
Nel tuo pezzo, caro Demetrio, prosegui tornando sull’esempio dello Strega, con i suoi troppi candidati. E arrivi a una conclusione sacrosanta:
Ritorno, quindi, al termine discorso. Ciò che manca, e di cui la critica dovrebbe farsi carico, è proprio il discorso al campo letterario: mostrare agli addetti ai lavori (più che ai lettori) i meccanismi che stanno scegliendo e che i disastri che producono. Il problema non è tanto che non si producono e si pubblicano buoni libri, ma che idea di mercato, di comunicazione, di riflessione sul libro hanno le case editrici, i giornali e i social. Il compito del critico in questo momento non è tanto di indicare quale libro sia meglio leggere, ma è di smontare questo meccanismo, mostrarne le strutture e le manchevolezze. È necessario far vedere la riduzione a mero oggetto della narrazione, spiegare che non basta opporre il concetto di qualità a quello di story telling per sancire ciò che è buono da ciò che è no, che il problema sta nell’idea di mondo che gli intellettuali, le case editrici, i suoi funzionari e i suoi autori hanno.
Mi permetto di porre in luce un elemento implicito nelle tue parole. Rivolgersi al campo letterario significa girare il volto del critico dal lettore agli “addetti ai lavori”. Una volta si sarebbe difesa la natura aristocratica, elitaria, della letteratura. Oggi queste parole suonano antipatiche e verrebbero equivocate. Ma non c’è più opera comune, non c’è agguerrita fratellanza, non c’è campo (autoselettivo) in cui potersi riconoscere. La tradizione è morta, l’impero è collassato. Il critico che oggi pensasse di rivolgersi al campo letterario, finirebbe per monologare davanti a sepolcri vuoti.
Il controllo (è la tua stessa, semplice constatazione) è passato nelle mani di chi concepisce la letteratura come prodotto utile per il profitto o come feticcio che alimenta il sistema secondo logiche consumistiche anche quando crea un “debito”, quando insomma è stampato propriamente per il macero (l’importante è che occupi un posto e garantisca la continuità della spirale).
Scriveva Gramsci, nei Quaderni del carcere:
L’assenza di un ordine artistico (nel senso in cui può intendersi l’espressione) è coordinata all’assenza di ordine morale e intellettuale, cioè all’assenza di sviluppo storico organico. La società gira su sé stessa, come un cane che vuol prendersi la coda, ma questa parvenza di movimento non è svolgimento
Il discorso critico risulta oggi inesistente perché non c’è confronto interno fra scrittori, dal momento che tutti, democraticamente, hanno il diritto di partecipare all’ultimo convegno, al nuovo festival, alla selezione di massa per il premio. Tanto, cinque minuti di notorietà non si negano a nessuno. A Fahrenheit, che per inciso è la trasmissione più intelligente del Paese, legge un Poeta a settimana, si presenta un Libro al giorno, si elegge un Vincitore al mese. Tra televoti e spinta dei followers, nel marasma generale, quale critico potrebbe, da solo, sapendo in partenza di destinarsi al martirio, arare il campo in lungo e in largo, chiamare a raccolta menti aperte e vigili, organizzare in un coro le diverse voci?
Caro Demetrio, la qualità esiste, ed è lampante. Ma è fuori circuito, perché viviamo in una società senza svolgimento, incapace di progettarsi.
Ed è tramontato il tempo dell’eroica resistenza – ricalco un’immagine ricorrente, negli ultimi decenni, fra i pochi “addetti ai lavori”. Credevo anch’io che si potesse stare nel sistema senza appartenergli. Adesso sono convinto che sia il tempo della fuga e dell’azione sovversiva.
Oggi occorre sabotare il successo.
Molti scrittori lo stanno già facendo. La letteratura segue la ferita etica che pulsa e genera nuova, non riconosciuta bellezza: sta migrando altrove.
Quando se ne accorgerà la critica?
Ecco, io penso che oggi il compito della critica sia anzitutto quello di costruire una nuova rete, un nuovo campo letterario – migrante. Solo successivamente potrà avviarsi il discorso di cui tu parli.
Ti spero con lo zaino in spalla: capiterà, allora, di incontrarci e vedere coi nostri occhi se potrà esistere un’altra terra promessa. Tuo
AT
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