Humanitas, grafite su tavola (2014), 105 x 69 cm, di Massimo Ezio Domenico Costanzo

Fine della tradizione

Ho impegnato anni con l’intento di dragare i fondali invisibili e fangosi della letteratura contemporanea, cercando la faglia che congiungesse la fine con un nuovo cominciamento.

Ho anche steso una mappa, obbligandomi ai panni dello studioso. (Leggere solo per me valeva nulla: a che serve una poltrona sui fondali del presente?)

Ora penso sia istruttivo, per chiunque abbia il desiderio di pubblicare, guardarsi intorno, e constatare di essere uno fra molti, molti altri. Qualche critico ha parlato di “angoscia della quantità”, io mi sono espresso in termini di fine della tradizione stessa. Quando tutti sono bravini, poeti da “sette più” o “sette meno”, non si va da nessuna parte. La cultura reale affonda, mentre in superficie l’editoria o l’accademia salvano qualcuno pescandolo non si sa esattamente secondo quale criterio. Sì, la tradizione è finita, collassata su sé stessa per eccesso di quantità.

Facciamo i conti per dimostrarlo. In Poeti nel limbo mi sono occupato di 60 poeti, scegliendo questo campione fra i nati dal ‘52 al ‘65 –, quindi una porzione alquanto ristretta fra i poeti viventi. Ebbene, questi autori rappresentano la punta di un iceberg! Meritavano a loro modo di essere inclusi nel repertorio anche Gianni Priano (che ho promosso come editore) o Alberto Bertoni, Alessandro Fo, Giovanna Sicari, Roberto Amato (poi oggetto di un numero monografico di Atelier), Maria Grazia Calandrone, per citare i primi che vengono in mente. Ma veramente per redigere quel repertorio avevo preso in considerazione (ovvero letto e analizzato con scrupolo) anche moltissimi altri poeti: Gabriela Fantato, Massimo Lenzi, Marina Pizzi, Antonio Camaioni, Giuseppe Goffredo, Michelangelo Zizzi, Enzo Di Mauro, Danilo Bramati, Claudio Recalcati, Valeria Rossella, Luigia Sorrentino, Biagio Cepollaro, Lello Voce, Marcello Marciani, Mauro Ferrari, Gabriella Galzio, Dario Capello, Lorenzo Pittaluga, Rinaldo Caddeo, Graziella Isgrò, Massimo Scrignoli, Chiara Scalesse, Luca Giachi, Maurizio Marotta, Giovanni Nadiani, Gian Ruggero Manzoni, Marco Caporali, Daniela Monreale, Loredana Magazzeni, Gianfranco Lauretano, Filippo Davoli, Roberto Bertoldo, Paola Malavasi, Sebastiano Aglieco, Albino Crovetto, Cesare Lievi, Aurelio Picca, Maria Luisa Vezzali, Paola Zampini, Luciano Benini Sforza, Bruna dell’Agnese, Stefano Guglielmin, Nadia Campana, Plinio Perilli, Fabio Scotto, Alessandro Quattrone, Pino Corbo, Enrica Salvaneschi, Claudio Gargano, Sauro Albisani, Isabella Vincentini, Francesco Scaramozzino, Osvaldo Coluccino, Baldo Meo, Manuela Pasquini… E andrebbe tenuto presente che taglio fuori brutalmente quelli del ‘51, ovvero poeti come Mario Santagostini, Aldo Ferraris, Elio Grasso, Francesco Scarabicchi, Filippo Ravizza, Massimo Lippi…

Ne avrò dimenticati sicuramente parecchi, né ho la pretesa che la mia ricerca sia stata, allora, priva di lacune, in termini di metodo, di possibilità o di sguardo.

Il punto è questo: gli scrittori contemporanei (qui esemplificati con la categoria dei poeti) sono legione e non esistono criteri immediatamente autorevoli, intrinseci e credibili, per discriminarli in partenza. Del resto, quelli che ho citato (per quanto sconosciuti ai più) sono persone che vantano la loro bella esperienza di convegni, di riviste, di premi, di pubblicazioni, a volte anche presso editori importanti. Ci sono persino nomi additati da voci autorevoli (Bertolucci si è speso per Dell’Agnese, il critico Agosti si è occupato di Coluccino, per dire).

La constatazione è consequenziale: abbiamo perso il bandolo della matassa e il criterio che si impone, nel tempo, è il non-criterio dell’inerzia critica. Si lascia che sia la storia a dettare legge. C’è posto per tutti, tutti si diano da fare. E in questo babelico commercio, poi, alla fine si vedrà quale nome resterà sulla bocca dei postumi.

Forse si serberà memoria dei più fortunati o dei più abili e pertinaci nell’autopromozione. Più probabilmente, rimarranno elenchi slabbrati, pieni di eccetera e di puntini di sospensione, per sospingere gentilmente verso l’oblio intere generazioni di scrittori. Io ho trascritto qui il mio elenco, il più completo e sincero possibile, per chi vorrà un giorno farsi archeologo del presente, spinto dalla sensazione che il racconto che gli è stato tramandato, più che semplicemente lacunoso, era palesemente, colpevolmente falso.

Così la tradizione è morta, per abbondanza e indolenza critica. E la letteratura contemporanea consegnata ai venturi non è più un’eredità, un dono terribile e responsabile, ma un avventato investimento sulla vanità.

(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa –
è di Massimo Ezio Domenico Costanzo, info qui, qui e qui)

 

2 commenti
  1. Michele Miccia
    Michele Miccia dice:

    Molto banalmente mi permetto di affermare paradossalmente che non c’è scrittura senza oblio, anzi la vera scrittura è l’oblio.

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  2. massimiliano
    massimiliano dice:

    Vorrei capire cosa s’intenda esattamente per tradizione. Scrivere con una metrica precisa? Non scrivere poesia con qualcosa che somiglia alla prosa? Ma che senso hanno allora quelle frasi, solite, riferite ai poeti ( pittori, musicisti registi etc) che “hanno rotto con la tradizione” e sembrano osannati per questo? che differenza c’è tra chi ha rotto con la tradizione, ( per genio, per talento) innescando delle novità, ammesso che sia possibile… non so…gli esempi trovali tu, ( ci sarà stato qualcuno o un gruppo che ha scritto in maniera tale per cui è stato additato come uno che “rompeva con la tradizione” no? c’è sempre! ) che differenza fa dunque costui con la cosa che affermi tu, ” la tradizione è finita.” Cero, rompere con la tradizione è già tradizione. In arte visiva se ne parlava gia negli anni 60. Ma se pensi a Duchamp si parlava già della fine della pittura retinica. etc. Il mondo è sempre sul punto di finire, questa è la contemporaneità. Il suo sapore è questo. Questo senso di immediatezza, di mancanza di un tempo di mezzo. Questa ubiquità malata.

    Ma, detto questo, in concreto, in poesia, a me pare che si usino sempre delle parole, che si cerchi un ritmo, che si usi il linguaggio in modo anti convenzionale con l’intento più o meno cosciente di scardinare il reale; e quanto leggo, a volte, non ho dubbi che sia poesia, anche se non saprei dimostrarlo. Mi riferisco alla poesia lirica, che non credo sia molto cambiata dal secolo scorso, e forse nemmeno il numero di poeti è cambiato ( solo che non c’era internet, e c’erano più analfabeti); la poesia lirica, cioè un esprimere in un qualche modo tragico, la tensione dell’individuo nei confronti della esistenza, tale per cui, a volte, a tratti, la sua esperienza, possa anche esondare dalla esperienza individuale e farsi magari umana, per me esiste anche oggi, anche se non esistono i movimenti, voci molto più grosse di altre, più eloquenti ( ma è poi un male visto che ogni uomo, pur con tutta la buona volontà, tende a diventare un pallone gonfiato in meno di un minuto?) e la corrente centrale si è spezzata in tanti rivoli, forse…pazienza. Ma la poesia (incarnata in alcune poesie) come risultato, quale rappresentazione di questo rapporto di forze c’è ancora e a me sembra viva. Me lo faccio bastare. In ogni caso è così e poco da fare. E io comunque so di non soffrire quanto te perché non ho minimamente la tua visione d’insieme in queste faccende.

    A me sembra che l’unico vero limite, l’orizzonte da superare, o da attraversare, non sia tanto preoccuparsi della tradizione morta o da superare o che so io…ma sia quello molto ma molto serio- oggi – del nichilismo, che rimane la miglior opzione alla pattumiera dell’ironico, del pop, del rap, dello sperimentale o la scrittura di ricerca che dir si voglia, e ultimamente gli scritti di molti autori adatti a zelig…ma sono poi gusti diciamo.

    Superare il nichilismo. Questo mi interessa in poesia. E’ questo per me il compito che spetta al poeta, e gli spetta perché nessuno prima di lui, in passato, si è trovato ad affrontarlo come oggi, come istanza primaria da superare, non più come atto di consapevolezza ( che è assodato), come canale di espressione, come struttura di conoscenza ( assodati anche questi). Cosa sono ormai? due secoli? La sua ombra non è ancora superata, no. Ma si sta svuotando, o meglio, meglio pensare che lo sia: ci vuole tempo come ogni cambiamento antropologicamente strutturale. Non sarò io a vederne il risultato, e nemmeno i nostri figli. Abbiamo un bel da dire: “superare il novecento”, come se il tempo del mondo, dell’uomo nel mondo, e le sue opere quindi, dovessero rispettare dei numeri inventati. Sai che gliene frega.

    Superare il nichilismo senza cadere nell’oscurantismo di una qualunque metafisica religiosa, aggiungerei. Manca una visione che separi e abbandoni il nichilismo senza dover per questo affidarsi alla totalità nascosta dietro al foglio. Senza sostenere o scadere a tutti i costi in un’estetica di frammenti ( accozzaglie di frasi monche che non significano niente pur di dire alla fine: è il nostro mondo questo) oppure optare per un ritorno all’ermetica furbesca ( quattro righe, sospese nel bianco, silenzio siderale, da dan…tre paroloni lì, una metafora sconclusionata là, un accenno sapiente di pornografia e via). Una liberazione sana e definitiva dall’illusione di Dio di cui il nichilismo rappresenta, per me, la reazione virulenta per liberarsene. La violenta reazione di un corpo che vuole guarire. Sto parlando di una tensione filosofica senza la quale la visione di noi stessi cade e ricade sul posto ( ritornano le mode, i razzismi, i vecchi bau bau, i totalitarismi, per questo). Quindi sì al Nulla, ma un Nulla carico di senso. E’ possibile? Una visione che renda giustizia alla dimensione del Sacro, che la parola un tempo serviva a tenere a bada, a sigillarlo là dove non potesse nuocere. Questo a me pare l’orizzonte in cui siamo chiamati a muoverci, o verso cui dovremmo muoverci, verso cui alcuni, a mio parere, già stanno andando. Lasciamo stare i nomi.

    Poi la critica, gli editori, la vanità, certo. Io non ne so nulla. Scrivo poesie tra milioni dispersione che lo fanno. E penso anche di essere mediocre, ma mi è necessario scrivere, anche se morirò anonimo come sono nato, e fine. Ciao.

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