Dino Campana

Bucare il perpetuo spettacolo

Mi viene in mente, a proposito della necessità di un’orchestrazione grandiosa di tutte le potenzialità testuali, il giudizio (riduttivo, che peraltro sottoscrivo) di Mengaldo su Campana:

Ma ciò che, soprattutto, appare sospetto è la facilità con cui l’analisi riesce a dar conto dei suoi procedimenti formali, basati in sostanza e pervicacemente sul principio della ripetizione e della circolarità, che avvolge nella spirale dei continui ritorni parallelistici l’apparente slegato del verso libero e della prosa lirica, collegando strettamente, al di là del frammentismo di superficie, brano a brano (del resto gli Orfici sono costruiti su una struttura tematica di poema assai ben calcolata, cui non è estraneo il disegno della Maia dannunziana). È come se questo poeta ctonio e notturno non avesse, stilisticamente, segreti. E forse il dramma di Campana, letterariamente parlando, fu proprio l’accanita volontà di stilizzazione cui non corrispondeva un possesso altrettanto sicuro degli strumenti stilistici e della loro varietà. Il fatto è che nel suo stesso modo di percepire la realtà c’è una duplicità contraddittoria: poiché essa gli appare sì come indistinzione germinale – donde anche la necessità di continui aggiustamenti del tiro, che rispondono a una vera e propria difficoltà di messa a fuoco –, ma anche come perpetuo spettacolo, fluire di cose viste («ogni fenomeno è per sé sereno» suona un suo memorabile ed hegeliano aforisma). Ciò che allora continua ad attrarci è proprio quanto rimane al di qua della stilizzazione, il non finito, i grumi o barbagli di espressività irrisolta, subliminale. L’effetto che si sprigiona dalle pagine di Campana è sempre, e talora in modo potente, di natura puramente suggestiva. Molto vi contribuiscono le strutture aperte e dinamiche sia delle singole liriche, o delle prose, che delle serie (Montale ha parlato acutamente di una «poesia in fuga… che si disfà sempre sul punto di concludere»): e queste sono omogenee al grande tema campaniano dell’eterno viaggio, dello scorrere degli spettacoli emblematici del mondo, e vengono realizzate con mezzi verbali (l’iterazione e variazione di poche cellule verbali, perciò caricate di forte peso simbolico) precisamente analoghi a quelli musicali della «fuga».

 «È come se questo poeta non avesse, stilisticamente, segreti»… evitare la «stilizzazione» per possedere la «varietà degli strumenti stilistici»… «Ciò che continua ad attrarci è invece il non finito, i barbagli di espressività irrisolta, subliminale»… C’è qualcosa di importante in questo che non si può liquidare appellandosi a una «natura puramente suggestiva» dell’evento poetico?

E che cos’è quella biforcazione del reale, tra «indistinzione germinale» e «perpetuo spettacolo», se non la capacità di penetrarlo rispettandone il mistero? Stiamo riducendo la nostra conoscenza del mondo a un rapporto puramente intellettualistico: e dal mondo peschiamo i fenomeni che si adeguano alla lettenostra rete concettuale.

Mi immagino insomma una poesia che trovi un delicato e fecondo equilibrio tra oscurità e chiarezza, che mostri lo spettacolo e lo trapunga, giacché l’io non esiste e il soggetto non si pone rigidamente davanti al mondo, ma è anche zanzottianamente “dietro il paesaggio”, in un continuo moto di andata e ritorno.

 

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