Assaggi di libri (1)

Ho ovviamente un percorso di letture personale da compiere, tra il metodico e il capriccioso. Ho accumulato negli anni titoli in particolare di narrativa a cui mi dedicherò, spero, per il resto della vita, con particolare riguardo per gli autori prediletti.

In questi giorni però ho ricevuto anche diversi omaggi. Sono sempre commosso, in questi casi – e non è un’affermazione ruffiana.

I libri sono sempre preziosi, anche e talvolta soprattutto quelli che vengono dalle periferie della grande editoria. Racchiudono spesso il senso di un percorso originale, sofferto. O anche libero e sbarazzino.

Nei ritagli di tempo, dunque, avrò modo di affondare il naso anche in queste pagine. Ma, come mi capita sempre, l’approccio a un libro è graduale, fatto di gesti rituali. Lo si prende, lo si rigira per bene. Gli si dà un’occhiata generale. Di solito, mi tengo alla larga dalle prefazioni. Poi lo si abbandona sulla scrivania, perché trovi nel disordine del lavoro un nido caldo, e la compagnia di qualche altro libro (un amico imprevisto). In seguito, arriva il secondo avvicinamento, con qualche prelievo casuale, giusto per capire di che pasta è fatto e per vedere se è in grado di allettare con qualche promessa. Da questo dipenderà la posizione negli scaffali: il disordine nel frattempo si è fatto eccessivo, occorre quindi correggere la sbandata. La lettura vera e propria avverrà solo dopo un po’ – talvolta anche anni, a dire la verità.

Ora mi trovo proprio in un momento in cui devo ricondurmi all’ordine, affidarmi al metodo. Ho risistemato diversi scaffali, lasciando migrare alcuni libri. E ho cominciato ad assaggiare i titoli ricevuti in questo paio di settimane. Tra l’altro, si tratta di volumi molto sobri, quasi austeri. Senza fronzoli, insomma. E non mi dispiace l’ipotesi di una bellezza dura, senza presunzioni.

Ho cominciato anzitutto con Il ciclo dell’acqua di Michele Miccia, ciclo che qui prende corpo in due titoli: Parte di fuori e Parte del ristagno. Escono per le edizioni L’arcolaio di Gianfranco Fabbri: un punto di credito in più. Entrambi poi vantano la prefazione (che non leggerò, se non dopo aver terminato il libro) di due persone che ho conosciuto, e che per un certo periodo (ahimè, troppo breve) ho coinvolto nella redazione di Atelier, vista la stima che nutrivo nei loro confronti: Claudio Bagnasco e Giovanna Piazza. Altri due punti di credito. E poi, l’idea di un “ciclo”: essere acqua, e partecipare così, nel suo viaggio, della vita umana e del creato intero. C’è un discorso, un orizzonte, una tenuta d’insieme. Una visione. Altro punto di credito. E apro il testo casualmente. Per esempio, qui:

Ogni giorno m’invento
un passato da celebrare con l’aggiunta
di nuovi particolari, un’infanzia
che non ho avuto, una giovinezza
adulterata, alberi sconosciuti
a cui soltanto ora do un nome,
elaboro una liturgia per
evocare i miei antenati perché
diffondano sul mio
conto voci credibili
che mi saldino a un prestigio di padre,
conta che questa storia giunga
a me millenaria, consolidata
per il buon nome dei miei ricordi.

Tutte le poesie rispettano questa matrice, a colpo d’occhio: un unico periodo nella maggior parte dei casi, suppergiù spiegato in quattordici versi, che seguono un andamento raziocinante, meditativo. Quando lo leggerò, sarò dunque cullato da un ritmo preciso: non serrato e perfetto come le ottave di un poema rinascimentale, ma comunque ordinato e pacato. Sarà come un viaggio in treno: le poesie migliori saranno come paesaggi nel finestrino, verso i quali lasciar vagare i pensieri.

 

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