La forza della dispersione e la critica che non c’è più

Nel suo bell’articolo di denuncia, Alessandro Moscè ci ricorda questioni note da tempo: soprattutto per quanto riguarda la poesia, non esiste più una critica attiva e attenta, nemmeno da parte delle voci critiche contemporanee (dei vecchi decrepiti maestri, già sapevamo). E ripropone una domanda semplice e sconvolgente:

dov’è finita la nettezza di giudizio che non indugia su rapide semplificazioni, specie quando riconosce che la bellezza di un’opera sta nel circolo delle sue continue metamorfosi e nel possesso delle dimensioni spirituali?

Su un tale quesito il lettore rifletta per giorni, come farò io stesso, tra me e me. Il resto, è una desolante constatazione: siamo alla dissipazione completa, non c’è confronto e conflitto e la conseguente generazione di valori – che servirebbe non certamente per imporre un canone, ma per mordere la contemporaneità, per fornire un punto di appiglio nell’immensa palude a chiunque (presenti o posteri) avrà mai voglia o bisogno di attraversarla.

Però.

Però le lamentele non mi piacciono e penso che non producano altro che noia. Così, mentre continuo a sperare nella zampata di eventuali menti critiche che pure sono già attive e hanno dimostrato acume e coraggio (Marchesini, Afribo, Pegorari…), credo che tutti quelli che hanno preso finalmente atto della situazione debbano decidere quale strada, delle tre, perseguire:

  1. rassegnarsi all’ingiustizia e cercare con il proprio attivismo di garantirsi uno spazietto nel falso storico che la nostra epoca tramanderà ai posteri (i quali, in ogni caso, ricicleranno la carta delle nostre antologie per fini meno nobili)
  2. rimboccarsi le maniche e provare a compiere l’impresa che altri evitano (se non io, chi? se non ora, quando?). (Mi si permetta la vanità di ricordare che personalmente è quanto ho fatto a suo tempo – non a caso Moscè mi chiama in causa – setacciando la generazione precedente alla mia, già condannata all’evaporazione globale della letteratura italiana, e cercando di imprimere un moto centripeto ed evolutivo per la mia generazione)
  3. restare concentrati sulla scrittura e scrivere un capolavoro tale che avrà da sé la forza di imporsi, magari anche a costo di fuggire in America, che resta ancora terra mitica e dominante, dove esistono (sì, è davvero così) scrittori giganteschi autodidatti e fuori dai circuiti accademici, che persino vivono appartati e invisibili o pubblicano un best seller ogni dieci anni, senza che nel frattempo si siano dimenticati di loro…

Non vedo altre vie percorribili. Ma forse, disperso io stesso ai più, ho notizie troppo frammentarie e qualcosa mi sfugge.

Ma va bene così. Ecco, occorre dirselo: è questo il nostro tempo, la nostra sfida, la nostra condanna e la nostra atroce gioia.

No, nessuna lamentela. Anzi, quasi quasi, aprendo i miei quaderni, mi sembra di cogliere una luce…

 

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