In difesa degli errori
Errando discitur, si continua a ripetere, eppure ormai il motto serve soltanto per scivolare via dagli errori, per toglierceli sbrigativamente dallo sguardo. Paradossalmente, con questo atteggiamento buonista non curiamo, ma addirittura nutriamo l’ansia degli studenti. Il riconoscimento, l’osservazione, l’analisi dell’errore deve invece essere una pratica di vita (non solo scolastica) costante, vissuta ovviamente con molta serenità.
Dedico diverso tempo, e non soltanto nei primi mesi di scuola, per insegnare ai miei alunni questo atteggiamento. Vieto loro il bianchetto, li guido alla pratica dell’autovalutazione, assegno valutazioni dopo la correzione guidata di determinati esercizi, uso persino il verde, nelle mie correzioni manuali, per attutire l’impatto sulla pagina. Chiedo loro di pensare allo sbaglio come a un passaggio non solo naturale nel processo di apprendimento, ma strategico. Un errore è come una porta: va trovata e aperta, per accedere a un nuovo livello del gioco. Per questo mi piace “indurli all’errore”: non poter punirli, ma per “abitare” insieme a loro il pensiero che ci ha condotti lì, su quella soglia scivolosa.
Il fatto è che ogni errore nasconde una parte di verità che va riconosciuta e preservata, mentre si cercherà di separarla chirurgicamente da quella parte fuorviante del ragionamento implicito o dell’intuizione che ha generato l’intoppo. Il bambino che scrive l’accento su “me” non è un egoista, ha le sue ragioni intellettuali: “Sì, il pronome personalmente complemento di forma tonica è accentato, hai colto bene la sua importanza nella frase, solo che è un accento invisibile, che non va segnato. Sei curioso di sapere perché?”
Ogni tanto, per sdrammatizzare, li invito a tornare a casa felici per ogni errore, da esibire con coraggio ai genitori: “Guarda, mamma, che bello, ho commesso cinquanta errori nel mio scritto! Ti rendi conto? Ho addirittura cinquanta possibilità per imparare qualcosa di nuovo…”. Ovviamente, la prima osservazione che mi fanno, è che a casa la notizia non verrebbe affatto presa con un sorriso…
Comunque, dopo qualche felice battuta, la persistenza delle difficoltà e l’impazienza degli adulti (spesso non solo dei genitori, ma anche degli insegnanti) si riversa sugli alunni, che invece avrebbero il diritto di vedersela insegnare, la pazienza.
Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo? Se si mettessero insieme le lagrime versate nei cinque continenti per colpa dell’ortografia, si otterrebbe una cascata da sfruttare per la produzione dell’energia elettrica. Ma io trovo che sarebbe un’energia troppo costosa.
Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa.
Così scriveva Gianni Rodari, nell’introdurre Il libro degli errori, che contiene brevissimi racconti o filastrocche, come questa:
PER COLPA DI UN ACCENTO
Per colpa di un accento
un tale di Santhià
credeva d’essere alle meta
ed era appena a metà.
Per analogo errore
un contadino a Rho
tentava invano di cogliere
le pere da un però.
Non parliamo del dolore
di un signore di Corfù
quando, senza più accento,
il suo cucu non cantò più.
Vale la pena ricordarci, sempre appropriandoci delle parole di Rodari, che, con tutti gli errori gravi che ci sono, a noi insegnanti tocca occuparci dei «più piccoli e innocui errori del nostro pianeta». E dobbiamo farlo con estrema serietà, certo, perché si impara dalle piccole cose.
Per questo il primo, terribile e fatale errore da evitare sistematicamente, dunque, è quello di avere paura degli errori.
Gracias por el blog compartido abierta y libertariamente.