Lo scrittore è come Dio
Lo scrittore è come Dio: non sa contare, non sa andare oltre al numero uno.
E in effetti il pubblico non esiste, esiste solo il singolo lettore. Un’opera che desiderasse incidere a livello di società sarebbe dunque insincera, stonata, impostata. Artefatta. Indipendentemente dal raggiungimento o meno del proprio obiettivo.
Che poi nessun uomo sia un’isola e all’interno dell’individuo si rispecchi la molteplicità è un dato che riguarda lo studio degli effetti, non l’atto della scrittura. Chi scrive agisce sull’individuo, sulla sua coscienza singolare.
Peraltro porsi come interlocutore il pubblico non è affatto più ambizioso, come si potrebbe credere. L’impresa potrà appellarsi a numerosi alibi, e parte avvantaggiata perché si appropria del pensiero comune, dei temi dettati dall’epoca – o, meglio, dall’idea dell’epoca che agisce all’interno della cultura in cui si è formati. Un po’ sommariamente e brutalmente si potrebbe affermare che non esiste l’intelligenza, ma semmai la stupidità comune. Se pensare da soli è già arduo, ma non impossibile, ragionare insieme ad altri è l’utopia dell’uomo politico. E, ovviamente, fronteggiare la massa significa darsi un tono, salire uno sgabello, santificare il proprio ego.
Il particolare è la cruna dell’ago da attraversare, per raggiungere l’universale.
Innanzi allo sguardo preciso di un singolo individuo non abbiamo scampo. Uno più uno: ecco la formula propizia per la generazione di un’idea. Uno più uno, ma non “due”. La sintesi è già un frutto buono per il giardino della sociologia.
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