I poeti sono una setta, anzi, almeno lo fossero!
Lettera aperta a Giorgio Anelli
Caro Giorgio,
rispondo in pubblico alla tua lettera per ragioni che, spero, si chiariranno nelle righe che seguono.
In fondo la domanda che hai posto è la più semplice, ma anche la più terribile: “Perché si scrive?”. A me è sempre piaciuto declinarla in modo più concreto: “Per chi si scrive?”. La seconda domanda può permetterci di mitigare la portata esistenziale della prima, quasi restituendo l’attività dello scrittore a quella di un artigiano (oh, atelier). Se la scrittura fosse un mestiere, o anche soltanto un hobby, non ci sarebbe tanto da rimuginare con la testa. “C’è un pubblico che attende il mio nuovo libro; mi piace passare il tempo in questo modo”. Eppure, come ben sai, soprattutto per chi scrive poesia, la questione lievita. E non la evito nemmeno io, sebbene preferisca affrontarla in modo schietto, senza troppa schiuma.
Intanto, partirei da un paradosso. Chi scrive poesia sente il demone dell’arte e quindi pensa che quel che fa abbia un significato enorme. Per lui, indubbiamente lo ha. Ma perché è importante tramutare la questione individuale in questione pubblica? Intorno tra l’altro c’è sempre meno possibilità di riscontro. Quali interlocutori autorevoli abbiamo per confrontarci? Così, per eccesso di autoreferenzialità, la maggior parte dei poeti (degli scrittori?) resta adolescente. Ci fosse davvero qualcuno capace di stroncare i nostri versi! Leggessimo qualcosa in grado di annichilirci, per manifesta grandezza! Finalmente si spalancherebbe in noi la scelta: il silenzio, eventualmente sotto forma di buen retiro in cui deliziarsi privatamente dei propri vizi; oppure la crisi, la rinascita, il rilancio artistico. Come ben sai, ho cercato per anni di aprire un orizzonte di relazione nel mondo letterario, proprio per queste ragioni. La parola chiede, per sua natura, il rapporto con l’altro. Certo, Je est un autre; ovvero, scrivo a me stesso. Questa è una risposta infatti ricorrente; efficace, ahinoi, come un dogma. Ma quale disciplina occorre per introiettare l’autorevolezza del maestro? Chi è capace di giudicarsi con rigore inflessibile? Chi può realizzare da solo il proprio destino, facendo di sé stesso il proprio destinatario?
Anche chi colleziona francobolli considera la sua passione molto importante, però non ha pretese di universalità. Anzi, si compiace del suo interesse di nicchia e gode del confronto all’interno di una comunità di iniziati. Occorre quindi difendere un’idea aristocratica dell’arte? Addirittura credere in un’élite fanatica, che protegge un’esperienza irriducibile e lo fa in nome dell’umanità intera? Temo di sì. I termini non mi piacciono, ma i poeti possono esistere solo come setta. Peggio, come utopia di una setta.
Ecco il paradosso: credersi depositari di un sapere fondamentale per tutti, mentre tutti misconoscono il senso della nostra esistenza. Sì, credo che questa sia la nostra condizione. Ma vorrei che tu mettessi a fuoco bene quest’idea, perché non c’è soddisfazione, dal momento che nemmeno tra poeti ci si sente letti, apprezzati o criticati come si deve. Così come non c’è commiserazione, perché non rimpiango i tempi in cui la letteratura contava qualcosa nella cultura mondiale (fosse l’epoca della società di corte o delle aristocrazie illuministe). Prendo semplicemente atto che questa è la società della globalizzazione, della tecnologia, della confusione postmoderna, di internet e, per ciò stesso, probabilmente, non è l’epoca in cui possono nascere nuovi capolavori per l’umanità.
A questo punto non vorrei essere catalogato tra i frettolosi proclamatori della morte dell’arte. Occorre andare ancora oltre, nel ragionamento. Del resto tu lo sai bene, anch’io spero che la poesia resista, ma secondo me può farlo solo passando attraverso una sorta di morte iniziatica, che altro non è che la presa di consapevolezza dello scenario che ti sto descrivendo. Ho detto infatti che questa “probabilmente” non è un’epoca favorevole, ma nutro la folle speranza che lo spirito del nostro tempo improvvisamente si incarni in un’opera che smentisca tutto e tutti. D’altra parte, nel giro di pochi giorni la nostra stessa esistenza non è stata radicalmente stravolta, a causa di un microscopico virus che ha messo in ginocchio i massini sistemi entro cui cullavamo la nostra inquietudine? Sarebbe di cattivo gusto paragonare la poesia a un virus, oggidì. E allora propongo l’immagine dell’ossigeno. La poesia è di tutti, attraversa e nutre la vita di tutti, anche se non ce ne rendiamo conto. Chi nel mondo negherebbe l’importanza dell’ossigeno? Conosci qualcuno che direbbe che la poesia è dannosa? Anzi, io penso che molti noterebbero che la poesia è ovunque. Banalizzata, appunto. Data per scontata. Nella pubblicità. Nelle canzonette. Nel poeticume dei messaggini social. Nella retorica delle relazioni umane. Negli slogan politici. Dappertutto. Ovunque misconosciuta, nell’atto stesso in cui la si riconosce come essenziale.
Anche l’immagine dell’ossigeno è però ampollosa, lo ammetto. I poeti sono inutili, in questo frangente. Ora servono respiratori veri, letti, mascherine, medici e infermieri. E non raccontiamoci che la letteratura porta almeno sollievo; mi rifiuto di pensare alla poesia come a un placebo. Già l’immagine di un’arte che, dopo l’evento, lo celebra, pur in una sacrosanta funzione di rievocazione e di conforto, mi interessa poco. La memoria serve, se serve, per il futuro. Il senso non si volge al passato se non nell’atto stesso in cui se ne distanzia, sprofondando nel tempo a venire, anche a costo di trasformarsi, di negarsi. Leggiamo ancora oggi le poesie di Ungaretti non tanto per immedesimarci (ci sono film che in questo risultano più efficaci), ma per mantenere viva la fiamma dell’umanità anche oltre quel frangente. Per godere del nostro respiro adesso. Per stare degnamente, come ha scritto in modo impeccabile il mio amico Riccardo, nel Privilegio della vita.
Dunque, siano benedette le schiere di operatori sanitari, di virologi, di scienziati, di esperti di economia, di psicologi, di politici lungimiranti e di tutti i mestieri utili, nella nostra società così complessa e fragile. Ma la voce minoritaria dei poeti ha senso proprio a partire dalla sua marginalità, dal suo tirarsi fuori dalla mischia.
Il poeta parla fuori del tempo, fa comunità con i morti e con i venturi – anche quando raccoglie le briciole del presente. Non butta la sua parola nella mischia, magari alzando il tono. La propone semmai con delicatezza e umiltà; la insinua. O, come sta capitando a molti, la trattiene, per soffiarla verso un tempo di ascolto più propizio.
Si scrive sempre nel sogno di un prossimo abbraccio con il nostro angelo.
Non a caso nella tua lettera mi parli della gioia imprevista che è nata dall’aver dato ascolto a versi altrui. Hai poi scoperto i pensieri terribili che accompagnavano la mano di chi scriveva. È proprio così. È sempre così. Scriviamo perennemente in trincea. La parola poetica brucia di sincerità perché è prossima alla cenere, come il soldato che non ha tempo di perdersi in vezzi inutili, esposto alla morte. Ciò è vero anche quando la trincea si traveste della quotidianità più trita o della cattività della nostra condizione antropologica. Si fa poesia solo quando si trova questa intensità, quando ci si accorge di quel che siamo, quando incendiamo l’attimo con la coscienza. Anche una cipolla può rivelarci a noi stessi. Così, certi pensieri tragici sono esperienza più comune di quel che si crede: tutti portiamo dentro la vertigine della morte, nell’attimo stesso in cui sospendiamo il respiro: atemwende.
Banale e tragico, ridicolo ed eroico, il poeta non ha nemmeno la possibilità di essere sempre presente. Non ha cittadinanza riconosciuta. Vive in perenne esilio. Ed è un bene. Uno scrittore, voglio dire, può sempre impugnare la sua penna, alzare la voce, dichiarare il suo dissenso. Ben vengano anche tali testimonianze, magari in questo modo la letteratura può talvolta salvare qualche vita. Dubito che esistano ancora scrittori di una tale portata, ma si tratta ancora una volta di un giudizio sulla nostra epoca, non di un giudizio sulla levatura morale degli scrittori odierni. Ma un poeta ha bisogno di parlare a un individuo per volta, e può farlo solo quando la grazia di prendere voce come poeta gli è concessa. La disciplina garantisce il mestiere, ma non l’ispirazione, e tantomeno il genio della poesia.
La voce della poesia è per sua natura inerme, fragile, povera – ma in questi margini sa trovare la propria potenza e la propria gloria. Il resto è la querimonia di un sacerdote veterotestamentario.
Questo paradosso, poi, ne produce molti altri. Per esempio, il poeta più esperto è il meno adatto a spiegare la propria arte. Oppure: si può intervistare uno scrittore, ma pretendere di intervistare un poeta sarebbe come pretendere di intervistare un morto.
Ecco, volevo dirti questo. La “fiamma di responsabilità” che hai sentito improvvisamente brillare non deve diventare un vessillo eroico. Dobbiamo sempre credere alla possibilità che la parola fiorisca nell’incontro, che ci sia qualcuno, là fuori, in un futuro imprevedibile, che accoglierà i nostri versi.
Per questo, appunto, anch’io oso aprire a una dimensione pubblica quella che è, molto modestamente, solo una risposta personale. Il dono del poeta è osceno per sua natura, perché ha abbattuto i confini fra interno ed esterno, fra sé e il cosmo, fra privato e pubblico. Può essere delirio, può essere un passo evolutivo.
Mentre cammino sul filo di queste parole come un acrobata, ti auguro ogni bene, come scrivi tu, in speranza immortale.
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