Il padre degli animali, di Andrea Di Consoli
(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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Il padre degli animali di Andrea Di Consoli non è un romanzo, ma un canto che buca le vicende, brucia i confini e risale i tempi per narrare la storia universale dei padri, esseri piegati al loro destino con quel cieco eroismo che li parifica alle bestie e nello stesso tempo li condanna alla malattia del pensiero, della consapevolezza interrogante. Questo è il canto testardo di chi continua a scavare con le unghie per trovare una vena di senso nel vuoto che ci circonda, nonostante il terribile stupore che ci rapisce non appena si tende la vista dentro il nulla che abbraccia il mondo rotondo, in cui l’uomo si perde fino a imparare come sia impossibile e drammatico ricongiungersi all’origine, e insieme come sia ineluttabile, perché persino andare sempre avanti, fedeli alla ricerca del bene migliore, significa svolgere la propria parte dentro la ripetizione del medesimo mito, che ci fa uomini esponendoci per sempre alla solitudine: nostro unico nostos è la perdita.
Questo è un canto teologico sulla scomparsa del padre, prima inquisito come un oracolo che dà risposte apodittiche e conchiuse, poi messo all’angolo con continue interrogazioni che diventano prese di posizione sempre più nette al cospetto del mistero della vita.
Questo è il canto della fine dell’infanzia, della scoperta dell’inadeguatezza del padre, di qualsiasi padre, alla fine impotente e necessario come dio stesso, esiliatosi dai propri simili perché da essi ferito e rintanatosi nel regno degli animali, del cui destino dispone con cinica pietà, la stessa che sente riservata a sé.
Questo è il canto della povertà, dei sogni biblici, della cruda bellezza della terra, della resistenza disperata, del bisogno di lavoro, delle illusioni politiche che attraversano il sud – il nostro e nello stesso tempo ogni sud del mondo. Questo è il canto della disperazione che prende quando si arriva a capire che compito dell’uomo è infliggere dolore, e non c’è scampo a questa legge, perché se la madre dona vita, il padre dona morte, in prospettiva tragica o salvifica, tragica e salvifica («Perché non hai il coraggio di dirmi che i morti muoiono per sempre?». «Io non faccio il prete, non spetta a me dirti certe cose. Queste cose fattele spiegare da don Eugenio». «No, queste cose me le devi spiegare tu»). Questo è il canto che smaschera le pretese della storia e le ipocrisie che tengono insieme le comunità (dei vivi e dei morti, del paese, della famiglia, del padre e del figlio), perché la storia e le comunità sono la sopraffazione maschile compiuta ai danni della Grande Madre e il collante delle vicende umane è la solidarietà criminosa che ci ostiniamo a sublimare con la nostra ipocondria («Per sopravvivere dobbiamo dimenticare. O far finta di aver dimenticato»).
Questo è il canto escatologico sulla progressiva, drammatica privazione di quell’abbraccio materno che redime il corpo, ormai ridotto a covo di malattie, a nido di una coscienza alienata, che ha perso ogni beata ignoranza, ogni capacità di appartenersi ingenuamente. Questo è il canto del sacrilegio compiuto ai danni della natura, ferita e asservita alle pretese maschili di dominio che conducono l’uomo a impiccarsi (o edipicamente, seguendo un filo simbolico che attraversa dall’inizio alla fine il libro, a togliersi la vista) con le sue stesse mani, armi con cui egli trasforma ottusamente, ogni volta, l’amore in offesa. Questo è il canto dell’assurda bellezza di quelle smaniose creature che siamo noi uomini, angeli dannati e perduti dentro la pupilla femminile che ci contempla, muta e mansueta come quella di un animale rassegnato e fiducioso: è tale liquido specchio che ci inquieta con quella calma primordiale che noi abbiamo dimenticato per sempre; è per tale accogliente, minuscolo e irraggiungibile infinito che noi perseveriamo, nonostante tutto, a cantare.
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