Kikuo Takano

Il sogno alchemico di fondere Occidente e Oriente: Kikuo Takano

Il sogno alchemico di fondere Occidente e Oriente, la terra delle ombre e la terra dell’alba, si realizza poeticamente nell’opera di Kikuo Takano.

Quanto il Giappone sia attratto dalla cultura occidentale è dato ormai secolare che trova riscontro in tutti i settori della vita moderna; quanto fascino la misteriosa e spesso segreta terra del Sol Levante eserciti sulla nostra fantasia è, parimenti, esperienza assodata. Eppure sorprende scoprire la voce di un poeta nipponico che si è imposto all’attenzione tardi, dopo una lunga disciplina personale, superate stagioni letterarie sperimentali e senza costrutto; sorprende trovarla intrisa di Heidegger, punta da tormenti esistenziali che consuonano perfettamente con i nostri; stupisce perché, questi elementi, fioriscono senza contraddizione nell’alveo di una lirica che è nello stesso tempo riconoscibilmente diversa dalla nostra.

Se è vero che non troviamo smaltati e conchiusi haiku o altre forme espressive estranee alla nostra cultura, che tanto ottengono consensi, a seconda dei periodi, in queste longitudini (forse più per la suggestione implicita nella volontà di appropriarsi di toni espressivi a noi estranei e quindi sorgivi che per una reale comprensione degli stessi), è pur vero che pochi poeti potrebbero da noi scrivere impunemente confrontandosi con le presenze elementari della natura, come invece può fare Takano. Le stelle, la spiaggia, il mare, i bambini e gli uccelli, gli alberi e le stagioni, compongono una grammatica insopprimibile che noi, leopardianamente poeti del sentimento e non più dell’immaginazione, siamo costretti a recuperare attraverso percorsi faticosi, giri mentali e simbolici a volte estenuanti. Sentiamo invece Takano, nelle poesie scelte da Paolo Lagazzi e Yasuko Matsumoto approdate, dopo un passaggio nella collezione della Fondazione Piazzolla di Roma, negli Oscar Mondadori: «Guizzanti come frutti d’acetosella, / dei fanciulli s’immergono nel mare, / colgono le asterie e le lanciano al cielo / gridando di aver preso le stelle». È l’apertura del libro, dalla poesia Sulla spiaggia.

Eppure, il lettore non tarderà a sentirsi a casa, perché questa apparente beatitudine percettiva ed espressiva si incrina e Takano, davvero leopardianamente, interroga il creato, insinua ombre e perturbanti vie di fuga. Vediamo questa dinamica, per esempio, in una delle immagini più ricorrenti, quella del cielo, che non a caso detta il titolo complessivo del volume, Nel cielo alto:

Quando ancora non ponevo domande
sul senso del cielo e della terra,
avevo mani e piedi di fango –
allora era felice la mia lingua:
in lei la luce s’incontrava con l’acqua,
il cielo con la terra: ero felice
come una foglia d’albero.

Ora invece ci si deve chiedere il senso, non più scontato, del lavoro di Dio. Nefasta conseguenza dell’occidentalizzazione del mondo? Macché, ogni cultura si nutre di intersezioni e contaminazioni, si sporge verso l’altro, nel moto stesso con cui si definisce. Ecco il prodigio alchemico: chiedere al cielo «Che cosa sei?», come Leopardi interrogava la luna, è sentire risuonare il tono della stessa umanità in diversi accenti, è cogliere l’unicità e l’universalità dell’uomo (forse basterebbe dire: l’originalità) in tutte le lingue. Il poeta che, dopo aver esplorato il creato, volge l’attenzione su stesso, mettendo a fuoco il proprio bersaglio all’interno del linguaggio e non più fuori di esso, compie un rivolgimento antropologico che non è solo il tratto della modernità occidentale, ma un passaggio cruciale per chiunque. «Oh, sono io, proprio io: / a me stesso ho sparato», dice il poeta, non senza precisare, però, che ora «non mi duole la ferita / e se anche ne soffro spero / che proprio qui sia la porta». Mirabile leggerezza che delegittima d’un tratto la pesantezza dell’orizzonte tragico e immobile contro il quale noi occidentali continuiamo a infrangerci. E ciò, naturalmente, non significa che il dolore e la solitudine siano qui fittizie: «Continuerò ad amare / me stesso, miserabile oltre cui / non ho chi amare, / me solo, / come una crepa indicibile». Ma non c’è in Takano, a conti fatti, il nostro morboso compiacimento nel torcere lo sguardo sull’io, come ci dimostra nella poesia in cui prende come pretesto poetico uno specchio, analogo evidente del cielo: «Che oggetto triste / hanno inventato gli uomini! / Chiunque si specchia / sta di fronte a se stesso / e chi pone la domanda / è, al tempo stesso, l’interrogato. / Per entrare più a fondo / l’uomo deve fare il contrario, / allontanarsi».

«Chiedere troppo», afferma nella nota di poetica inserita in fondo al libro, «ci procura spesso gravi capogiri. Ma se smettiamo di porci domande, cadiamo come la trottola che continua a ruotare intorno a sé e può mantenersi dritta solo girando vertiginosamente».

La certezza che continua a muovere l’avventura, salvando l’uomo dallo sguardo pietrificante dell’angoscia, è dunque la capacità stessa di riconoscere la relatività dell’io, di non ingigantirlo romanticamente fino a ingoiare il cosmo, di preservare insomma un altrove dove lanciare nuove domande:

«In ogni epoca c’è stato / un giovane votato a partire / girando delicato una maniglia. // In ogni epoca un giovane è andato / così lontano / da non tornare più indietro». È tutta in questa leggerezza di pronuncia – che è al contempo frutto di una strenua disciplina interiore –, in questa capacità di prendere le distanze, con un inchino, anche da sé e continuare semmai a interrogare il cielo alto, il fascino di questa poesia, così prossima a noi, così lontana.

 

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