Giorgio Vigolo

La Vergogna di scrivere

Scrivere dà gioia. Scrivere dà noia.
Scrivere consola. Scrivere dispera.
Scrivere incanta e disincanta.
Scrivere è naturale come un respiro. Scrivere è faticoso come allenamento alla corsa.
Scrivere è anarchia, rivoluzione. Scrivere è disciplina, obbedienza.

Diffido di quegli scrittori che non hanno ombra. Diffido di quelle scritture che non hanno retrogusto. La letteratura si ama e nello stesso tempo si odia. La dedizione che chiede a volte soffoca, genera ripulsa.

La si ama per consumarla, per estinguerla in noi, perché la vita sia vita e si liberi dei propri fantasmi.

In ogni scrittore, c’è una spinta autodistruttiva. Per qualcuno è una scrittura che si fa esondante, che brucia qualsiasi oculata gestione estetica (il secondo Montale, l’ultimo Luzi). Per altri è il silenzio, prima o dopo la pubblicazione. Per altri ancora è la francescana rinuncia al nome, oppure la masochistica contraffazione della propria icona – feticcio da innalzare e immediatamente distruggere.
Credo in questo attrito. L’opera d’arte nasce da questa abrasione. C’è qualcosa di osceno nella scrittura (mettere a nudo sé o il mondo, sé e il mondo, con qualsiasi travestimento) che genera Vergogna. Per questo si scrive di soppiatto, all’insaputa quasi di sé stessi, come diceva Vigolo in una poesia (*).
Altrimenti, non c’è fuoco, non c’è profumo di vita. Non c’è sacrificio reale. E scrivere sarebbe solo mestiere: non creazione ma composizione. Quieta morte. Imbalsamazione.

«E quando mi avrai letto, getta questo libro ed esci. Vorrei che ti avesse dato il desiderio di uscire, uscire da qualunque luogo, dalla tua città, dalla tua famiglia, dalla tua camera, dal tuo pensiero». (André Gide, I nutrimenti terrestri)

* * *

(*) GIORGIO VIGOLO (Roma, 1894 – 1983)

Scrivere una poesia

Scrivere una poesia,
sempre è un colpo di mano sull’ignoto,
un penetrare svegli
nel mistero del sogno,
un prendere possesso della notte.

Aggiramento, azione di sorpresa
sulla nostra città profonda:
forzare la sua porta,
entrare fra le case addormentate,
scoprire il loro segreto.

Perciò una poesia
si scrive di soppiatto,
all’insaputa quasi di noi stessi;
è un contrabbando fatto sui confini
sorprendendo le scolte, è un furto sacro
in cui si rischia la dannazione
o il bacio divino.

Perciò poetando non si deve quasi
vedere ciò che si scrive
nel tenebrore, nella dormiveglia,
nei frastagli del confine
che sono come i fiordi della mente
ove si penetra nei mari interni
molto addentro nei seni
di una soprannaturale calma.

 

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